Intervista al Dr. Giacomo Cavalli
a cura di Dr.ssa Alessandra Bracci e Dr.ssa Paola Fereoli*
scarica la versione pdf
Fin dalla notte dei tempi l’essere umano ha esplorato il mondo, mosso dalla necessità di cercare conoscenza per fini diversi. La storia tramanda il susseguirsi di imprese epiche, talvolta mitiche in cui le figure dell’esploratore, dell’avventuriero e del ricercatore si sono intrecciate nell’eroe in viaggio alla conquista della conoscenza di cui siamo memoria. Nella modernità la figura dello scienziato incarna le qualità del cercatore che esplorando in differenti ambiti continua ad avventurarsi nei meandri delle profondità alla ricerca di ciò che vive al di là del conosciuto, sostenuto dalle proprie competenze. Competere nella ricerca non dovrebbe significare competizione fra i differenti ambiti di studio della scienza. Proprio attraverso la rivoluzione scientifica della complessità, secondo la quale tutti i fenomeni viventi coesistono in una trama interconnessa di relazioni, si è riscoperto il senso originario del cum-petere, inteso come “dirigersi verso”, per far convergere nel cuore pulsante della ricerca le scoperte dei differenti ambiti con l’obiettivo di nutrire la rete informativa di conoscenze senza che nessuna divenga più fondamentale di altre.
Gli universi della biologia, dell’essere vivente, della società, della cultura esistono poiché coesistono interagendo in una relazione di circolarità che forma e informa la rete della vita di cui tutto è parte e nulla è dominante. Questo è il senso profondo che anima da sempre la passione della ricerca in Giacomo Cavalli, scienziato italiano, riconosciuto in ambito internazionale per la sua ormai trentennale attività scientifica nel campo dell'epigenetica. Dopo la laurea conseguita nell'ateneo di Parma e la specializzazione con dottorati di ricerca in Svizzera e in Germania, dalla fine degli anni ’90 si è stabilito in Francia per dirigere un importante laboratorio di ricerca presso l’Istituto di Genetica Umana di Montpellier. Attualmente a capo del team “Cromatina e Biologia Cellulare” (UMR 9002, CNRS e Università di Montpellier) ha ricevuto il Grand Prix de la Fondation pour la Recherche Médicale 2020 per il suo eccezionale contributo al progresso della conoscenza scientifica in campo medico. Il laboratorio di Giacomo Cavalli è riuscito ad ottenere una mappa tridimensionale del genoma della Drosophila (comunemente chiamata moscerino della frutta) mettendo in luce l’organizzazione spaziale del DNA dentro il nucleo della cellula nonché l’esistenza di un’eredità epigenetica transgenerazionale. Questo lavoro, poi confermato in cellule di mammifero, ha mostrato che l'espressione genica infatti è il risultato non solo della sequenza nucleotidica ma anche dell'organizzazione spaziale che il DNA ha nel nucleo e di come i cromosomi permettono di far interagire la “rete” del genoma, se “quarant’anni fa guardavamo ai singoli geni, ora sappiamo che dobbiamo guardarli nel contesto”.
"Tutto ciò che ho vissuto nella mia vita mi ha preparato per questo momento", come questa affermazione è vera per lei? Qual è la domanda su cui si fonda il suo lavoro? Cosa c’è al cuore della sua ricerca?
La frase è molto vera per ogni persona che vive con impegno la propria vita, nel senso che se noi viviamo con onestà e sincerità cercando di fare del nostro meglio in ogni momento e quindi cercando anche di usare la nostra vita per costruire il nostro benessere interiore e quello di chi ci sta intorno, tutto quello che ci succede è importante ed è un insegnamento che ci prepara al futuro, anche se non sempre in modo sufficiente.
Il percorso è iniziato dal liceo, come altri mi ponevo domande metafisiche sull’origine della vita, della mente, sul senso delle cose. Ho letto libri sulla fisica, sulla filosofia e su altri argomenti fino a maturare un interesse sulla sostanza della vita per cercare di capirne, se non il senso, almeno il suo funzionamento. Gli studi e anche il lavoro partono dalla ricerca di senso, c’è chi lo trova attraverso le discipline più umanistiche, chi invece nella vita personale - anche questo è importantissimo - io lo ho trovato nella curiosità che in sé è portatrice di senso e, costantemente animato dalla passione, mi ponevo altre domande, ad esempio sulla relazione molto stretta fra la ricerca e l’arte, che a mio parere sono ambiti molto simili. Esistono diversi tipi di ricerca, alcune sono molto più applicate, mentre la ricerca di riconoscimento e di esplorazione somiglia molto alle discipline creative, sappiamo che artisti o scrittori hanno studiato tanti anni, imperterriti.
Il mio lavoro di ricerca è dedicato all’epigenetica, un ambito di cui si parla sempre più spesso ma che resta, al tempo stesso, ancora una conoscenza “confidenziale”. L’epigenetica è una disciplina molto datata, poiché se ne parla già dagli anni ’40, ma per vari decenni è rimasta un po’ ai margini della scienza. Al giorno d’oggi la possiamo definire come lo studio dei meccanismi e delle molecole che permettono l’espressione di diversi gruppi di geni in presenza di una stessa sequenza di DNA. Ognuno di noi è fatto di cellule e ogni cellula ha una sequenza di DNA che lo costituisce, quello che viene definito Genoma. Ogni cellula ha lo stesso Genoma – tranne qualche rara eccezione – pur producendo diversi geni, ossia quando un gene si esprime il DNA è “trascritto” per produrre una molecola complementare di RNA, che è poi tradotta per formare le proteine che sono i costituenti delle nostre cellule ma anche gli enzimi che catalizzano le reazioni chimiche. Sapendo che una cellula muscolare esprime proteine diverse rispetto alla cellula neuronale, vi è una grande questione: come facciamo, avendo lo stesso DNA in tutte le cellule, ad esprimere geni diversi in cellule diverse? Noi ed altri abbiamo scoperto che ciò dipende dal fatto che il DNA è impacchettato all’interno delle cellule in modo diverso… certe zone del nostro DNA sono “chiuse”, cioè inaccessibili al macchinario cellulare incaricato di trascrivere il DNA in RNA, mentre altre zone sono “aperte”, cioè accessibili e funzionali. La differente accessibilità delle diverse regioni del DNA dipende da proteine che ne impacchettano certe zone piuttosto che altre in diverse cellule. Noi studiamo i meccanismi della memoria epigenetica dei geni che devono restare chiusi e di quelli che invece devono restare aperti per funzionare. Questi meccanismi funzionano a livello cellulare per cui cellule epidermiche faranno progenie delle stesse cellule e non si trasformano in altre, salvo in casi patologici come ad esempio i tumori. Però c’è anche una memoria che può essere trasmessa attraverso le generazioni e, essendo difficile dimostrarlo negli esseri umani, è stato possibile perturbare le condizioni geniche in molte specie-modello in cui si è potuto osservare che queste si trasmettono alle generazioni. Noi lo abbiamo dimostrato con lavori sulla Drosophila e lo studio è stato molto affascinante poiché abbiamo osservato che il DNA non è tutto. Tenendo presente che nella biologia del XX secolo era presente un’altra corrente di pensiero secondo la quale noi saremmo i nostri geni e che affermava, senza dimostrazioni definitive, che la sequenza del DNA trasmettesse patologie, caratteristiche di comportamento, preferenze sessuali, etc. Al tempo stesso, alcune riviste, in modo superficiale, definivano l’epigenetica come la liberazione dalla schiavitù del DNA, in realtà stiamo andando in profondità verso una contribuzione biologica che permette di trovare reti di relazioni anziché mattoni sui quali fondare certezze. La nostra scienza, infatti, vuole dimostrare che al di là del DNA esistono altre molecole che contribuiscono all’eredità, vuole aggiungere complessità e possibilità di acquisire nuove conoscenze al di là della biologia del DNA che ci caratterizza attraverso tre miliardi di coppie di basi in una sequenza che viene spesso rappresentata come un’informazione digitale, portatrice di si o di no: avremo una patologia o no, una caratteristica fisiologica oppure no... Nella prospettiva dell’epigenetica sappiamo che, se tutto fosse contenuto nella sequenza del DNA, saremmo completamente indipendenti dall’ambiente. Esistono invece altre molecole che sappiamo essere molto dipendenti dalle esperienze, dagli stimoli, dallo stress, dalla nutrizione e subiscono modifiche. Quindi esiste un dialogo costante fra l’individuo e l’ambiente che altera in profondità la vita e l’eredità delle cellule. Nel secolo scorso la medicina ha scoperto che diversi tipi di malattia hanno un’origine embrionale. Ad esempio infezioni gravi alle vie respiratorie, asma o problemi di stress respiratori che si sono subìti nel primo anno di vita possono provocare conseguenze anche dopo decenni di vita sana con esiti respiratori drammatici. Molto probabilmente questi problemi precoci hanno sviluppato cellule, circuiti leggermente alterati che hanno compensato le disfunzioni ma non completamente e quando il processo cellulare comincia a risentire dell’invecchiamento si creano scompensi. Tutto questo è influenzato dall’epigenetica.
La cultura del DNA è pregnante nella società attuale. In uno studio longitudinale ideato dal genetista Kári Stefánsson della società deCODE genetics, è stato realizzato un progetto di mappatura del genoma della popolazione islandese, con lo scopo di studiare l'influenza delle mutazioni genetiche sulla salute umana e sono state scoperte importanti correlazioni fra alcuni tipi di patologie e variabili del DNA in zone del genoma praticamente sconosciute. Oltre a questi lavori che mostrano l’indubbia importanza della sequenza del DNA, quello che sta a cuore della nostra ricerca è andare oltre il DNA, perché il DNA non è tutto, non siamo dei computer con un software, non abbiamo un programma immutabile, siamo molto di più, siamo molto più complessi, molto più ricchi, molto più interessanti, meno predittibili.
Quale immagine secondo lei potrebbe descrivere la dimensione dell’epigenetica?
Come il quadro “La danza” di Matisse conservato presso l’Hermitage di San Pietroburgo in cui sono rappresentati dei ballerini che formano un cerchio tenendosi per mano… anziché pensare al DNA che dall’alto trasmette verso il basso secondo un procedere temporale, possiamo immaginare qualcosa di più circolare ove le nostre molecole interagiscono con l’ambiente accogliendo e trasmettendo stimoli che in parte derivano dalla sequenza del DNA ereditario, ma in parte anche dalla dimensione culturale ed ambientale, nonché da altri fattori positivi nonché negativi quali gli stress. L’epigenetica, per esempio, ha rilevato che in caso di forte scarsità di alimenti questo ha generato dei difetti trasmessi nei feti almeno nelle due generazioni successive. Quindi, invece di un sistema gerarchico in cui il DNA trasmette l’informazione alle generazioni future dominandone il destino, proporrei l’immagine di questo grande cerchio in cui non c’è qualcosa di dominante e in cui ogni fattore influenza e collabora con gli altri nel determinare la complessità di ogni essere vivente.
Considerando il Corona virus quale evento contemporaneamente individuale e collettivo, quale possibile sintesi diagnostica e di intervento è possibile esprimere tenendo conto delle due modalità comunicative, segnica (cioè legata alle modalità in cui tale virus circola nell’organismo) e simbolica (cioè legata alle alterazioni del codice simbolico, espressione dell’inconscio individuale e collettivo)?
Secondo me è un problema di salute pubblica, certamente è stato un anno drammatico, ma da un punto di vista sociale e personale stiamo sopravvalutando il Corona virus e quindi non vedo delle valenze simboliche o filosofiche superiori a quelle di tanti altri problemi. È un problema serio ed importante, ma i virus hanno colpito l’umanità da sempre. Noi stessi siamo abitati da centinaia di migliaia di specie di microorganismi che convivono lungo il profilo di un equilibrio fragile, ma che è sempre esistito. La differenza è che, in questo caso, sono state colpite società avanzate da un punto di vista economico perturbando la possibilità di soddisfare i bisogni individuali ed economici che sono le forze principali che guidano tali società. Quindi è più questo che ha scatenato le reazioni più importanti, che non la paura di perdere i nostri “nonni”. La risposta è data dal fatto che ci sono miliardi di dollari in gioco, il che può colpire imprese, industrie e multinazionali che hanno una potenza smisurata. Quindi siamo testimoni di questo, mentre stiamo mettendo in campo mezzi ingenti per il Corona virus che ha determinato la morte di molte persone, probabilmente molte più persone sono morte contemporaneamente e silenziosamente a causa dell’inquinamento, della perturbazione del clima e di tanti altri danni di vario tipo che noi stessi stiamo facendo al pianeta. Nel momento stesso in cui certe specie spariscono a rapidità mostruosa senza neanche riuscire a predire le conseguenze di tali sparizioni, forse stiamo sbagliando le logiche distributive. Certamente debbono essere investite risorse nel Corona virus, ma altrettante dovrebbero essere investite per difendere l’ambiente. Nei piani di rilancio europeo, molte delle risorse – almeno sulla carta – devono essere attribuite alle politiche ambientali, ma siamo ancora ad un livello molto basso. Non è che non voglio parlare di Corona Virus, ma mi chiedo come siamo arrivati a questo punto, ci muoviamo a breve termine senza preoccuparci della prevenzione pur sapendo da decenni che sarebbe comparso: ricordo un discorso di Barack Obama nel 2014 in cui la questione non era tanto sul “se ci sarà” quanto piuttosto sulla necessità di prepararsi ad affrontare in modo efficace non solo negli Usa, ma a livello globale, il rischio di una pandemia aggressiva di un agente patogeno trasmesso per le vie respiratorie, ma nessun governo ha reagito. Il punto è questo, siamo orientati alla ricerca del beneficio immediato e superficiale, senza riuscire a vedere nemmeno fra cinque anni. Questo è sicuramente qualcosa che dovremmo cercare di imparare ad integrare.
Il Corona virus è una pandemia che va ben oltre una crisi sanitaria per quanto critica ed estesa a livello globale. È un pandemia che affonda le sue radici nel “riduzionismo” tipico dei nostri sistemi economici, politici, educativi che ignora i limiti della reale capacità biologica del nostro pianeta sfruttandone in modo prodigo e capriccioso le risorse vitali, mentre utilizza insufficientemente le capacità umane. Secondo lei, ha stimolato un risveglio nelle coscienze?
Sinceramente non vedo bellissimi segnali. Pur essendo un ottimista, in questo particolare frangente, ho più l'impressione che siamo tutti in attesa del vaccino per poi ricominciare il business as usual, d'altronde l’augurio che si sente più frequentemente è proprio “speriamo che si possa tornare a vivere come prima”. Sicuramente in certi ambiti ci sono espressioni del tipo “speriamo di riuscire ad utilizzare questa esperienza per agevolare un cambiamento”, ma al di là di questi contesti ristretti il mood generale è di poter tornare “come prima”. Quindi al momento l’obiettivo è quello di investire un sacco di soldi per sistemare il problema e poter riprendere la vita di sempre. Io credo che ci sia bisogno di un cambiamento più profondo e sono fiducioso nella capacità dell’umanità di poterlo affrontare, ma probabilmente alcuni eventi sono più capaci di altri nel determinare dei cambiamenti e questo non mi sembra che sia così incisivo, come potrebbe essere invece una crisi climatica.
Albert Einstein raccontava che le nozioni di base che lo condussero alla formulazione della teoria della relatività erano emerse quando lui aveva immaginato di “viaggiare su un raggio di luce”. Qual è il ruolo dell’immaginazione nella creazione di nuovi scenari futuri?
Secondo me è essenziale, fra l’altro Einstein aveva introdotto i cosiddetti Gedankenexperiment, esperimenti del pensiero che sono fenomeni di creatività canalizzata contenuti in un quadro logico, integrati nel suo caso con pensieri di genialità e fuori da ogni schema. Molti scienziati hanno parlato del bisogno di questo tipo di creatività, per esempio c’era uno scienziato biologo francese François Jacob, Premio Nobel per la medicina per le sue scoperte sul controllo genetico dell’espressione genica nei batteri e della regolazione delle relazioni tra batteri e virus, che faceva riferimento alla “scienza del giorno” che è una scienza in cui siamo logici, costruiamo le ipotesi mattoncino per mattoncino e studiamo cause e conseguenze, siamo capaci di identificare legami di forte causalità che ci permettono di costruire degli esperimenti in modo cartesiano; in contrapposizione alla “scienza della notte” spesso caratterizzata da intuizioni e sogni in cui siamo completamente liberi e che conducono a osare, a esperimenti improbabili, ai momenti “Eureka!”. Poi chiaramente solo alcuni di questi esperimenti hanno cambiato la storia dell’umanità mentre la maggioranza ha semplicemente cambiato qualche mese di lavoro nell’ambito della tesi di uno studente. Comunque sono momenti caratterizzati da un denominatore comune, in quanto sono vissuti come momenti rivoluzionari.
Quindi sì, l’immaginazione è assolutamente essenziale perché è quella che crea il futuro, è quella che crea i movimenti più radicali, pur coadiuvati anche da movimenti più progressivi.
Al di là delle “divisioni” religiose e dei differenti “credo”, quale è l’importanza della dimensione spirituale e come renderla concreta nel nostro quotidiano?
La dimensione spirituale è essenziale e ci riguarda tutti, se fossimo semplicemente una somma della nostra fisiologia e di pensieri logici la vita sarebbe molto prevedibile e deprimente. Nonostante la spiritualità non sia favorita dalla società attuale in cui il materialismo ha molta importanza da un punto di vista economico, molte persone si orientano alla spiritualità in modo spontaneo. Chi invece cade nel materialismo assoluto perde il senso della propria vita perché la spiritualità ci offre grandi riflessioni e obiettivi che vanno oltre l’immaginazione che avevamo fino a ieri. La spiritualità crea motivazione e in sua assenza siamo ridotti a razionalità e alla speranza di incontrare la fortuna, perdendo il senso profondo della nostra vita, abbonati all’infelicità. Gli oggetti materiali non possono colmare questa voragine. Ci sono due risvolti fondamentali: le persone che fanno scienza hanno la loro propria spiritualità e sono condizionate in senso positivo. Ad esempio io studio determinate cose e mi rifiuterei di occuparmi di altre per questioni etiche. Non toccherei un embrione umano perché non è etico e non mi occuperei di qualcosa che insulti la mia spiritualità. La spiritualità condiziona la scienza stessa, è il motore del cambiamento, permette di avere le grandi idee che spesso derivano da grande libertà dello spirito, è la fonte di quello che siamo. Occorrerebbe renderla concreta nel quotidiano, come farlo è una delle grandi pecche della nostra società. Ad esempio, oggi nella scuola si valuta molto la performance degli studenti ma non la creatività come scopo, l’orientamento è volto al profitto piuttosto che alla dimensione più umana legata al senso profondo delle cose. Ricordo che all’esame di maturità avevo svolto un tema che riguardava l’ambito dell’istruzione e ne avevo criticato i difetti, ma almeno in quegli anni si permetteva agli studenti di spaziare, di trovare la propria via in modo libero.
“Essere il cambiamento” da un lato è un concetto appassionante perché ricco di potenziale, ma dall’altro tocca paure profonde. Se la trasformazione della totalità richiede un cambiamento interiore su una scala che molti non hanno mai sperimentato, siamo davvero pronti per questo cambiamento? Quali sono le capacità e le conoscenze che, a livello individuale e collettivo, è necessario sviluppare o potenziare per contribuire ad una comprensione più autentica della vita e per scoprire chi siamo veramente e che cosa vogliamo diventare come società?
Il cambiamento è appassionante e al contempo include una certa paura, una certa resistenza atavica derivanti da una evoluzione in cui fino a poco tempo fa, quando le risorse erano limitate e incerte, per qualsiasi cambiamento importante si temeva di mettere in pericolo la sopravvivenza. Solo per una piccola parte di umanità non si deve più temere per la propria incolumità fisica dinnanzi ai cambiamenti.
Personalmente vivo quotidianamente il cambiamento al lavoro, è più fonte di piacere che una preoccupazione. Qualsiasi persona che sia accompagnata e orientata realizzerebbe che i cambiamenti non sono pericolosi quando derivano da un movimento interiore. In casi in cui i cambiamenti importanti derivino da condizioni esteriori sarebbe sempre opportuno operare in modo cosciente. Dal punto di vista individuale è importante poter vivere come fanno i bambini, con immediatezza, essendo capaci di affrontare le situazioni senza la paura delle conseguenze rivoluzionarie che potrebbe comportare una decisione che cambia la direzione. Come i bambini ben accompagnati dagli adulti non devono temere, così noi possiamo essere accompagnati da una società che, nonostante le critiche, è ricca di possibilità e di competenze che favoriscono il cambiamento.
Sul piano collettivo dobbiamo tornare alla formazione, all’educazione, al concetto di società. C’è un errore di fondo, a mio parere, che è quello di affidare ad una politica basata sulla competizione il ruolo di dirigere la società mentre mancano gli strumenti necessari per accompagnare i cittadini verso l’apertura, verso l’evoluzione personale, verso i cambiamenti sociali. In un circuito virtuoso, come cittadini dovremmo imparare ad educare noi stessi e i nostri politici per poter stimolare una politica di lungo termine basata sulle competenze e orientata verso obiettivi collettivi.
Il cambiamento in grado di fare la differenza avviene nella profondità del nostro cuore. Quanto c’è di vero in questo e come è possibile attivare questo processo?
Sono molto d'accordo, vorrei però precisare che il problema è spesso la semantica. La parola “cuore” non è compresa da tutti nello stesso modo: c'è chi la percepisce come la spiritualità, altri come un qualcosa che assomiglia più a reazioni epidermiche del sistema parasimpatico cioè l'emozione immediata, altri ancora semplicemente come una pompa. È sempre bello dare ragione al concetto più romantico, ma a quale versione ci affidiamo per il cambiamento? Ad esempio, un importante cambiamento sociale è possibile se siamo tutti a bordo e non soltanto quelli che la pensano al nostro stesso modo. Nel caso degli intellettuali, una colpa è quella di stare tra noi condividendo concetti di alto livello senza preoccuparsi di chi potrebbe non capirne la profondità. Nei decenni futuri, sarebbe bello riuscire a coniugare le nostre risorse spirituali, percezioni ed intuizioni con l’ambito umanistico - che consideriamo il più elevato ma a cui si consacra una minima parte delle risorse economiche - fino agli ambiti tecnici e ingegneristici che sono strettamente utilizzati per il progresso tecnologico senza porsi il problema delle conseguenze ai vari livelli sociali, ambientali, culturali, etc. Che il “cuore” sia l’unione della conoscenza, della capacità tecnica, dell’intuizione e della spiritualità, allora un concetto di “cuore olistico” al di là dell’emozione, sarebbe un bello scopo. Si tratta di un’integrazione a più livelli e nella scienza stiamo andando sempre più verso approcci multidisciplinari, non solo mettendo insieme degli “esperti”, ma anche educando le nuove generazioni di studenti all’interdisciplinarietà. Se si proponessero queste riflessioni nello sviluppo dei diversi ambiti della società, sarebbe importante istruire e formare i cittadini, ad esempio con programmi alla fine dei telegiornali. In questo modo tutti potremmo conoscere l’impatto delle diverse scelte sulla vita di una società e sarebbe un buon modo di influenzare l’andamento delle politiche. Quindi vedo il cambiamento come “cuore”, come un centro in cui far confluire le diverse informazioni.
Può descrivere “GAIA AS IS & TO BE” utilizzando parole ed immagini atte a simboleggiarla. In altri termini quali immagini potrebbero esprimere, secondo il suo personale punto di vista, il nostro Pianeta nel tempo attuale e nel tempo futuro che si auspica?
Sono molto preoccupato dell’attuale situazione e lo dico pesando le parole, dire che la situazione è disperata non è una grande esagerazione. Certe zone del pianeta vivono scenari quasi post apocalittici, è un pianeta grigio, pericolante e pur rimanendo spazi molto belli, sono isole fragili in un corpo malato. Dobbiamo agire presto, gli obiettivi posti non sono così radicali, l’obiettivo di un impatto zero sull’ecologia (non solo sul bilancio CO2 e sul riscaldamento globale) entro il 2050 è il minimo indispensabile e al momento non siamo in quella direzione. Occorrono cambiamenti radicali. Se li sapessimo mettere in atto, ci si potrebbe auspicare un pianeta migliore. Utilizzando un’immagine, visualizzo il simbolo orientale dello Yin e dello Yang, che comprende gli opposti dove non appena una delle due forze sembra prendere il sopravvento l’altra rinasce attraverso la forma sinuosa dell’onda. Abbiamo sempre contrapposizioni che si completano. La sfera è la forma del nostro pianeta, lo immagino in un movimento di forze contrapposte ma complementari. che permettano una sua evoluzione armoniosa e bilanciata a lungo termine. Bisogna agire subito. Ho letto in un articolo attuale che un gruppo di ricercatori ha stimato la quantità di biomassa totale del pianeta e la quantità dell’antropomassa, cioè la biomassa umana più tutta la massa dei materiali generati dall'uomo. Mentre la biomassa umana rappresenta una piccola parte della biomassa totale, l’antropomassa ha raggiunto all’incirca la quantità totale di biomassa e questo è un segnale che mostra chiaramente quanto il nostro impatto sul pianeta sia drammatico e quanto occorra agire con urgenza. Noi, nel nostro piccolo lo stiamo facendo attraverso la diffusione dell’informazione scientifica nella società, in particolare nelle scuole superiori dove andiamo a discutere di ricerca con gli studenti. Se si inizia a coltivare le menti, ognuno può fare tanto, anche di più rispetto a quanto è possibile ai vertici. Non dobbiamo aspettare che i cambiamenti profondi arrivino dai vertici, dobbiamo agire, se possibile insieme a loro, oppure cambiarli con la forza dell’empatia, della conoscenza e della progettazione di vie future tanto interessanti quanto sostenibili.
Bibliografia di riferimento
Grand Prix della Fondazione per la Ricerca Medicale di Parigi 2020, link
G. Cavalli e coll., Role of Polycomb Complexes in Normal and Malignant Plasma Cells, IJMS 2020, 21(21)
G. Cavalli e coll., LifeTime and improving European healthcare through cell-based interceptive medicine, Nature volume 587, pp. 377–386 (2020)
G. Cavalli e coll., Regulation of single-cell genome organization into TADs and chromatin nanodomains, Nature Genetics volume 52, pp. 1151–1157 (2020)
G. Cavalli e coll., 4D Genome Rewiring during Oncogene-Induced and Replicative Senescence, Molecular Cell volume 78, issue 3, pp. 522–538 (2020).
G. Cavalli, E. Heard, Advances in epigenetics link genetics to the environment and disease, Nature volume 571, pp. 489–499 (2019)
*Dr.ssa Alessandra Bracci - Manager presso una multinazionale automotive e vincitrice di premi nazionali ed internazionali nel marketing. Responsabile area editoriale ANEB. Capo Redattore della rivista MATERIA PRIMA - Rivista di Psicosomatica Ecobiopsicologica. Autrice di pubblicazioni in ambito scientifico.
*Dr.ssa Paola Fereoli - Psicologa e Psicoterapeuta specializzata presso Istituto ANEB. Ha approfondito i temi del trauma e del lutto nell’ambito dei reati gravi, nella pubblicazione Fine pena mai. Le famiglie delle vittime di omicidio in Italia.