Intervista al Dr. Giorgio Cavallari
a cura di Dr.ssa Alessandra Bracci*
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La nostra è un’epoca assai curiosa: da un lato una scienza e una tecnica sempre più avanzate ci danno il senso di un illusorio dominio sulla vita; dall’altra, mai come in questo momento, l’uomo vive un’esperienza di estraniazione della propria soggettività per non dire di alienazione da tutto ciò che è naturale e vitale. Per questo motivo “salute” e “malattia” sono concetti che assumono una rilevanza del tutto particolare non solo in riferimento al singolo individuo nelle sue dinamiche di sofferenza del corpo e della psiche quanto anche in relazione al più ampio “disagio” che la dimensione collettiva esprime nelle forme più disparate e attraverso eventi fra loro diversissimi. In un’epoca in cui il farmaco sembra essere la panacea di tutti i mali, restituendoci l’illusione di poter sconfiggere la malattia al ritmo di compresse, sciroppi, pomate, etc. abbiamo dimenticato che, per quanto possa essere fondamentale la definizione di un adeguato apparato chimico-farmacologico, la “malattia” richiede necessariamente la conoscenza delle leggi naturali a cui l’uomo e l’universo sono inesorabilmente sottoposti, poiché nel microcosmo “uomo” si intrecciano tutte le categorie e gli strati che compongono il reale. L’uomo è infatti materia ed energia, struttura biochimica e apparato psichico, sangue e respiro, ma anche contemporaneamente linguaggio, simboli, mito, religione, arte, storia, socialità, ecc.
Il “perché” della malattia, pertanto, ci apre non solo ad una lettura oggettiva ma ci impone di comprenderne il senso in una prospettiva simbolica. Come sappiamo, molti studiosi nel corso del tempo ci hanno mostrato come il corpo, sano o malato che sia, “parla” un suo specifico linguaggio strutturato sulle leggi espressive proprie del simbolo, rendendo l’interrogativo molto esplicito: cosa vuole comunicare l’inconscio attraverso la malattia?
Se, ad esempio, pensiamo ad un paziente che ha avuto un infarto si renderà chiaramente necessario curare l’attività coronarica, ma occorrerà anche capire perché è stata colpita tale funzione in un particolare momento della sua vita personale, lavorativa, etc. Questo modo di procedere applicato alla pandemia che sta drammaticamente caratterizzando questo momento storico, ci invita ad interrogarci e a cercare di capire cosa viene fermato ed in che modo possiamo ripartire… perché tutti siamo d'accordo sul fatto che si debba ripartire! Ma come?
Nella costante attenzione alle dinamiche che stanno caratterizzando questo periodo, accogliamo la voce del Dr. Giorgio Cavallari – medico psichiatra, psicoterapeuta analista di formazione junghiana (CIPA, IAAP), Direttore Generale, Direttore Didattico e Docente della Scuola di Psicoterapia Istituto ANEB – che nel suo percorso di ricerca ha riccamente affrontato il tema della “crisi” nelle sue differenti prospettive, identificando nel tempo attuale uno “stop” ad un particolare modo di procedere che nei suoi testi identifica con l’affermarsi, ad un certo punto della storia del genere umano ed in particolare nella storia occidentale, del “patriarcato” ossia di un movimento caratterizzato da parole precise: crescita, avanzamento, conquista, sviluppo, etc. Un atteggiamento che egli non considera in sé negativo: «fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza», ricordandone quindi la fondamentale natura che porta ad esprimere ed esercitare la forza, il potere, l’intelligenza, la particolarità e l’unicità della specie umana. Purtuttavia, tutto questo diventa negativo nella sua espressione unilaterale e granitica, nella sua espressione incapace di dialogo.
Se la sopravvivenza dell’umanità dipende da un salto di “qualità” dell’uomo è lecito chiedersi cosa dovrebbero cercare di sviluppare l’individuo e la società intera per far fronte al futuro. La dimensione archetipica sollecitando la necessità di una visione unitaria e globale, comporta per i singoli “protagonisti” di questo confronto un avviamento verso una propria trasformazione nella direzione di una maggiore consapevolezza della propria appartenenza alla “rete della vita”, recuperando così una prospettiva evolutiva sempre più aperta alla comprensione delle leggi della natura. Un profondo cambiamento che non potrà pertanto essere il risultato di un progetto pianificato a tavolino, quanto piuttosto il risultato esperienziale dell’azione, “azione” intesa quale fondamento della creatività umana che, entrando in interazione con altre prospettive, è destinata ad adattarsi e migliorarsi generando nuovi percorsi evolutivi. È a partire da questi assunti che incontriamo il Dr. Cavallari per consentirci di comprendere non solo i momenti salienti della nostra crisi epocale, quanto anche la necessaria dimensione creativa ed il suo legame con quello che definisce “processo di umanizzazione”.
Nel web sta circolando una bellissima frase: "Tutto ciò che ho vissuto nella mia vita mi ha preparato per questo momento", come questa affermazione è vera per lei? Qual è la domanda su cui si fonda il suo lavoro? Cosa c’è al cuore della sua ricerca?
Ciò che ho vissuto finora, gli incontri umani, le esperienze personali e professionali fatte in vari ambiti, le conoscenze che ho acquisito mi piace considerarli una parte del mio “destino”: Seneca disse che il destino guida chi lo segue volontariamente e travolge chi vi si oppone. Al cuore di ciò che faccio, come psicoterapeuta ecobiopsicologico, ci sono due verbi che esprimono due “azioni”: capire e curare. Dietro il primo c’è una curiosità che mi accompagna fino da quando ero ragazzo, la curiosità di capire la Vita, vita mentale, vita biologica, vita dell’uomo e dell’ambiente in cui si trova. Vita che è cambiamento e stabilità, pace e inquietudine, autonomia e dipendenza, coraggio e paura, successi e fallimenti. Vita che è esperienza di crescita, di forza, di conquista, di libertà, di creazione di scenari nuovi, ma anche esperienza di limite, di malattia e inevitabilmente di morte, dimensione oscura che dalla vita non potrà mai essere totalmente separata.
Dietro il secondo verbo, curare, c’è la convinzione che non si può essere ciechi e sordi di fronte alla sofferenza di “altri”, siano uomini, altri esseri viventi o lo stesso nostro pianeta, che ci sta dicendo in vari modi, dai ghiacci che si sciolgono all’estendersi delle terre inaridite fino ai fenomeni metereologici estremi che è “malato”. Al cuore di ciò che faccio dunque c’è “apri gli occhi e capisci” e poi “rimboccati le maniche e fai qualcosa”.
Considerando il Corona virus quale evento contemporaneamente individuale e collettivo, quale sintesi diagnostica e di intervento è possibile esprimere tenendo conto delle due modalità comunicative, segnica (cioè legata alle modalità in cui tale virus circola nell’organismo) e simbolica (cioè espressione dell’inconscio individuale e collettivo)?
Sappiamo che il Corona virus dal punto di vista biologico ed epidemiologico è un virus respiratorio che “esce” dai malati e dai portatori sani attraverso gli atti espiratori normali, e ovviamente tramite sternuti e colpi di tosse, ed “entra” nelle persone contagiabili attraverso gli atti inspiratori. Dal punto di vista simbolico, per l’ecobiopsicologia l’apparato respiratorio è deputato alla “relazione”, allo scambio. Dal momento che gli esseri umani non possono vivere senza relazioni, la modalità di intervento deve essere ispirata non certo a soffocare il sano desiderio di incontro interpersonale, ma deve incoraggiare a viverlo concretamente con una sana “igiene” non solo fisica (ad esempio uso della mascherina) ma anche con una sana “igiene psichica”: bisogna coltivare relazioni autentiche, basate sul rispetto reciproco, sulla giusta “distanza” che evita l’invasione dell’altro, l’intrusione brutale nel suo mondo, e il “contagio” dell’altro soggetto attraverso la proiezione brutale e prevalentemente inconscia di emozioni non elaborate, di aspettative non realistiche, di cariche aggressive non comprese, di invidie psicologicamente infettive. In altri termini coltivare relazioni basate su dialoghi autentici, su una reale motivazione all’incontro e alla condivisione, sulla capacità di reggere in modo maturo i conflitti, fra esseri umani che sanno stare da soli e con altri. Evitare, per quanto possibile, una relazionalità basata su “assembramenti” non tanto fisici quanto mentali, basati su una sorta di omologazione chiassosa e superficiale di comportamenti e valori piuttosto che sull’incontro autentico di soggettività umane diverse.
Il Corona virus è una pandemia che va ben oltre una crisi sanitaria per quanto critica ed estesa a livello globale. È un pandemia che affonda le sue radici nel modo in cui l’attuale e dominante “riduzionismo” tipico dei nostri sistemi economici, politici, educativi ignora i limiti della reale capacità biologica del nostro pianeta sfruttandone le risorse vitali, mentre utilizza insufficientemente le capacità umane. Cosa ne pensa?
La pandemia, è vero, affonda le sue radici nel “riduzionismo”. Più precisamente, affonda le sue radici in un tipo particolare di riduzionismo, che consiste nella drammatica prevalenza del fattore “quantità” sul fattore “qualità”. A cavallo fra Settecento e Ottocento la popolazione mondiale era stimata su settecento milioni di esseri umani, approssimativamente ovviamente. Oggi siamo oltre sette miliardi, e con il nostro numero crescono produzione manifatturiera, consumo di materie prime, emissioni inquinanti, quantità di rifiuti, trasporto di merci e persone per terra, per mare, con aerei. Non è una cosa negativa in sé, è preoccupante che non venga adeguatamente compresa la necessità di regolare, governare, se necessario “contenere” la espansione quantitativa di tali processi, favorendo una espressione più misurata e umana, sostenibile, di essi. Mi sembra urgente anche una riflessione squisitamente psicologica: fra le capacità umane vittime della deriva quantitativa c’è la capacità di “ascoltarsi” reciprocamente. Come terapeuta incontro pazienti molto giovani, adolescenti, che sono bravissimi a inviare e ricevere, negli scambi con i coetanei, una quantità impressionante di video, foto, filmati autoprodotti, post sui social, brani musicali. Spesso, però, non sono capaci di chiedersi reciprocamente, guardandosi in volto: «...come stai?...» e ascoltare rispettosamente la risposta.
Albert Einstein raccontava che le nozioni di base che lo condussero alla formulazione della teoria della relatività erano emerse quando lui aveva immaginato di “viaggiare su un raggio di luce”. Qual è il ruolo dell’immaginazione nella creazione di nuovi scenari futuri?
Il ruolo della immaginazione è fondamentale, in tutti i campi.
Italo Calvino, parlando della creatività, disse che questa vitale ed utilissima qualità, in tutti gli ambiti, non solo in quello artistico e letterario, è sotto la protezione di due figure mitologiche: Vulcano e Mercurio. Il primo è il fidato, efficiente, abilissimo e competente “fabbricatore”, che scende ogni giorno puntuale nella sua officina e realizza ciò che gli è stato commissionato. Il secondo, il dio pagano Mercurio, ha le ali ai piedi, che non sono quindi ben piantati per terra, e “vola”, archetipo della curiosità, della inquietudine, anche a cavallo di un raggio di luce, seguendo la bella immagine di Einstein. È anche dio dei ladri, pronto a “rubare” idee, intuizioni, occasioni, simbolicamente parlando pronto a trasgredire, a immaginare una realtà diversa da quella ritenuta, a torto, l’unica possibile. L’immaginazione aiuta l’uomo ad essere sanamente anche “eretico”, dove con tale termine intendiamo, ripensandone la etimologia, l’uomo capace di scegliere, capace, per usare un termine incisivamente adottato da Camus, di dare vita a delle vere “svolte” nella propria esistenza.
Al di là delle “divisioni” religiose e dei differenti “credo”, quale è l’importanza della dimensione spirituale e come renderla concreta nel nostro quotidiano?
Sappiamo per certo che, da quando esiste l’uomo, esistono forme di spiritualità. Tutte le componenti fondamentali della vita umana individuale e collettiva, nascita, morte, alimentazione, caccia, sessualità, organizzazione sociale non sono mai state esperite solo nella loro semplice “cosalità”, concretezza, utilità pratica. Hanno sempre avuto anche una dimensione ritualizzata, sacrale, in una parola simbolica.
Hanna Arendt disse che l’uomo vive su tre “piani”: il primo è quello semplicemente biologico, l’uomo che respira, si alimenta, dorme. Il secondo è quello sociale-politico-economico, il suddito, il cittadino, l’uomo produttore, consumatore, che lavora, che vota, che ha un ruolo nella società. Il terzo piano, che dà un senso, che dà ai primi due, potremmo dire, l’indispensabile respiro dell’ulteriore, è quello del simbolico, del sacro, del religioso. Un esempio, mi piace perché molto rappresentativo, appartiene alla tradizione ebraica, ma esempi simili si trovano in molte culture spirituali sia occidentali che orientali, non credo una valga più dell’altra, le rispetto tutte: molti si chiedevano perché un famoso Rabbi, assai versato nello studio acutissimo della Torah, svolgesse nel contempo l’umile lavoro del ciabattino. “Ingenuamente”, il Rabbi disse che, ogni volta che cuciva la tomaia di una scarpa con la corrispondente suola, univa Dio con la sua Shekinà. La dimensione spirituale non umilia e non schiaccia la quotidianità incarnata della vita umana. Semmai vi aggiunge senso, e la assenza di “senso”, lo sappiamo bene, è una delle malattie collettive del nostro tempo.
“Essere il cambiamento” da un lato è un concetto appassionante perché ricco di potenziale, ma dall’altro tocca paure profonde. Se la trasformazione della totalità richiede un cambiamento interiore su una scala che molti non hanno mai sperimentato, siamo davvero pronti per questo cambiamento? Quali sono le capacità e le conoscenze che, a livello individuale e collettivo, è necessario sviluppare o potenziare per contribuire ad una comprensione più autentica della vita e per scoprire chi siamo veramente e che cosa vogliamo diventare come società?
Dante fece dire ad Ulisse, nella sua Commedia, «fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza». Lo scopo delle parole dell’eroe greco era quello di convincere i suoi compagni a seguirlo in un atto di cambiamento radicale, che consistette addirittura nel varcare le colonne d’Ercole per uscire da quella parte del mondo in cui l’uomo antico e medievale erano confinati da sempre: provarono ad andare oltre quello stretto «dov'Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l'uom più oltre non si metta».
Si trattò di una finzione letteraria, che però – forse – nascose una intuizione inconscia del grande poeta. Infatti, poco più di due secoli dopo un altro italiano, Cristoforo Colombo, varcò davvero le colonne d’Ercole, non naufragò come Ulisse, ma raggiungendo l’America riuscì veramente ad “essere il cambiamento”: dalla sua impresa nacque l’età moderna, nulla fu più come prima nella storia dell’uomo. L’“invito” a seguir virtute e conoscenza muove in noi lo slancio a provare ad “essere il cambiamento”, nello stesso modo in cui la conclusione dell’impresa dell’Ulisse dantesco ci fa provare un autentico brivido di terrore, leggendo le parole immortali: «un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com'altrui piacque, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».
Si tratta di due stati d’animo entrambi necessari per l’evoluzione umana, individuale e collettiva: il primo è l’entusiasmo trasgressivo, quasi adolescenziale, di Ulisse e dei compagni nel varcare le colonne d’Ercole, espressione del valore del proprio potere, la fonte del coraggio necessario per ogni cambiamento, che si incarna nella virtù della fortezza. Il secondo, non meno prezioso, è quel timore che emerge, e deve emergere, quando si pensa che ogni cambiamento importante potrebbe attivare quel turbo che percosse il legno di Ulisse. Qui emerge la virtù della prudenza, che fa responsabilmente ponderare le conseguenze di ogni processo di cambiamento.
La domanda “quali sono le capacità e le conoscenze che è necessario sviluppare o potenziare per comprendere più autenticamente la vita e scoprire cosa vogliamo diventare come società” è affascinante e impegnativa, provo a fornire una mia risposta che non vuole essere definitiva ma piuttosto l’apertura ad un confronto. Io credo che la capacità da coltivare sia prima di tutto una capacità etica, una capacità di comprensione etica, una cultura etica. Non voglio fare un discorso retorico, sia ben chiaro: quando parlo di cultura etica intendo una visione in cui i fini non scompaiano di fronte alla, per alcuni versi entusiasmante ed eccitante, egemonia dei mezzi.
Poco sopra ho esposto la preoccupazione che la dimensione “quantitativa” finisca per prevalere su quella qualitativa. Le due “forze” che reggono il mondo contemporaneo, mi viene quasi da dire le due “divinità” che dominano il Pantheon laico dei nostri giorni sono, come è noto, la economia e la tecnica. Non ho alcuna intenzione di demonizzarle, pensiamo solo a quanto la informatica ci abbia aiutato ad attraversare i difficili giorni del lockdown dovuto alla pandemia, riducendo le conseguenze dell’isolamento forzato. Si deve però sottolineare come tale bi-teismo, mi si passi il brutto neologismo, non sia infecondo, ma generi due “figli” che rischiano di divenire pericolosi per la salute e per la stessa sopravvivenza dell’uomo e della Terra: il primo si chiama Volume, il secondo Velocità. Crescita, espansione, sviluppo, aumento dei fatturati, efficientazione e razionalizzazione dei processi produttivi che esitano nella loro velocizzazione… è la virtù della forza, o fortezza, che domina. E la prudenza? E la valutazione delle conseguenze, dei costi umani, psicologici, ambientali? Riflettiamo, prima che sia troppo tardi, su quanto volume e velocità possano diventare traumi, cioè colpi intollerabili, per la vita dell’uomo e del pianeta. Nessuno si illuda di cancellare l’economia e la tecnica, insieme, però, e su questo come esseri umani non dobbiamo essere divisi, riportiamo l’etica, il discorso sui fini, sulle conseguenze, sulla assunzione di responsabilità anche per le generazioni a venire come terza figura in un Pantheon oggi troppo unilaterale.
Il cambiamento in grado di fare la differenza avviene nella profondità del nostro cuore. Quanto c’è di vero in questo e come questo processo è possibile?
È vero che il cambiamento, anche a livello collettivo, non può prescindere da un cambiamento che avvenga nei singoli individui. La domanda è ben posta, perché parla di “profondità del nostro cuore”. Molte tradizioni antiche mettevano nel cuore dell’uomo, piuttosto che nel suo cervello, la “sede” della vera comprensione, e anche pensatori contemporanei hanno parlato di “intelligenza del cuore” riferendosi ad una intelligenza che coglie i valori etici, le risonanze affettive ed empatiche, e che permette agli esseri umani di capirsi l’un l’altro.
Terminata da poco la seconda guerra mondiale, in una intervista fu chiesto a Jung - fondatore della psicologia analitica - cosa lui, in qualità di studioso di psicologia, suggerisse perché l’umanità potesse evitare per il futuro la tragedia di una nuova guerra. La risposta fu che, per aiutare i processi di pace nella comunità internazionale, i singoli uomini dovevano essere prima di tutto in pace con se stessi.
Come attivare il processo nella profondità del cuore di ognuno? Una risposta pragmatica: creando tempi, spazi, e dedicando energia ad una sana solitudine. Sana solitudine, non isolamento narcisistico, sia ben chiaro. Agostino scrisse che «in interiore homine habitat veritas». Il dialogo con se stessi è la base di ogni dialogo fecondo con gli altri esseri umani.
Infine, le chiedo di descrivere “GAIA AS IS & TO BE” utilizzando parole ed immagini atte a simboleggiarla. In altri termini quali immagini potrebbero descrivere il nostro Pianeta nel tempo attuale e nel tempo futuro che si auspica?
Due “quadri” mi vengono in mente: il primo è quello dell’alternarsi, nel mondo naturale, delle stagioni nell’anno, e del giorno e della notte. Quiete e attività, luce e ombra, movimento e riposo, in una parola senso della misura, modus, usando un termine antico.
Il secondo è quello di una madre con il suo bambino, dalle meravigliose e immortali rappresentazioni artistiche fino alle immagini reali di vere madri con veri figli.
Bibliografia di riferimento
Cavallari G., (1990). Il doppio e lo sviluppo della coscienza, in Il doppio, psicoanalisi del compagno segreto. Como: RED
Cavallari G., Frigoli D., Ottolenghi D. (2000). La Psicosomatica. Milano: Xenia
Cavallari G.,(2003). L’Uomo post patriarcale. Verso una nuova identità maschile. Milano: Vivarium
Cavallari G.,(2005). Dal Sé al Soggetto. Un itinerario psicoanalitico. Milano: Vivarium
Cavallari G., (2009). Bios and Archetype, in Jung Today Vol. 1. New York: Nova Science Publishers
Cavallari G.,(2013). Creatività: l'Uomo oltre le Crisi. Milano: Vivarium
Cavallari G., Breno M., Michelon N., Menegola L., (2020). L’Armonia nel Dolore. Milano: Vivarium
Cavallari G., Gazzotti S., (2020). Le Forme del Male. Milano: Vivarium
*Dr.ssa Alessandra Bracci - Manager presso una multinazionale automotive e vincitrice di premi nazionali ed internazionali nel marketing. Capo Redattore della rivista MATERIA PRIMA - Rivista di Psicosomatica Ecobiopsicologica. Autrice di pubblicazioni in ambito scientifico.