Intervista al Prof. Davide Susanetti
a cura di Dr.ssa Alessandra Bracci*
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Nel vivo di una crisi che oltre ad essere ecologica, economica e politica, è prima ancora psicologica e spirituale, nel vivo di una Babele del mondo moderno che pretende di informare quando invece con il suo contradittorio genera confusione e disorientamento, l’essere umano vive una sorta di insoddisfazione e di incompletezza dinnanzi ad un sapere che nei diversi campi si è sviluppato lungo direttrici orizzontali di conoscenza che sembrano incapaci di incontrarsi, di intersecarsi e di attivare un dialogo fecondo e “circolare”. Nonostante l’efficacia del pensiero scientifico, sul piano operativo e su quello delle applicazioni tecnologiche, viviamo in un mondo senz’anima, devastato nella natura, frammentato nel corpo e nell’immaginario, al punto da farci pensare che l’unico rimedio possibile sia costituito dal progresso della scienza. Purtuttavia, è proprio nel momento della massima espressione potenziale del pensiero scientifico che ne emergono anche i limiti e con essi il sentimento della necessità di integrare il metodo scientifico stesso con le antiche modalità di conoscenza. Con questo non si intende proporre un semplice ritorno al passato o ad una regressione psicologica, quanto piuttosto riscoprire le caratteristiche di un mondo antico per operare una sintesi capace di avviare un cammino verso la “cura di sé”, verso «quella radice sacra che abita l’uomo, così come ogni altro segmento del reale» aprendo la via ad una «rigenerazione che fa evolvere l’uomo e insieme l’universo a un superiore grado di armonia e intelligenza, a un’unità di tutto con tutto», come direbbe Davide Susanetti, professore di Letteratura greca presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell'Università di Padova, nonché autore di numerose pubblicazioni occupandosi prevalentemente di tragedia greca, Platone, ermetismo, alchimia, pensiero esoterico e simbolico, membro del comitato scientifico Airesis e socio fondatore dell’Associazione Darma.
Scienza senza coscienza, siamo a questo punto! Purtroppo, la “malattia” del nostro pianeta Terra richiede un’urgenza che non può operare solo per via esteriore, che con tutta probabilità resterebbe inoperante, quanto piuttosto esorta ad una restaurazione della nostra “Terra” interiore. Ed ecco che a Delfi, dal greco antico δελφ?ς che significa “utero”, la matrice o origine di tutte le cose, il dio Apollo fa sorgere il proprio santuario offrendo il proprio soccorso, donando una preziosa indicazione che attraverso i secoli, costituisce una delle massime più celebri trasmesse in Occidente, gn?thi seautón, «conosci te stesso»! Poche e semplici parole che esortano ad un percorso di conoscenza “integrale”: conosci la tua mente, conosci il tuo corpo, conosci il mondo, l’universo, la terra, la natura che ti ospitano, suggerisce l’ecobiopsicologia, soprattutto conosci la Rete della Vita a cui appartieni come essere umano, come creatura dotata di psiche e di soma, conosci le relazioni che legano la tua irripetibile originalità a ciò che ti circonda.
"Tutto ciò che ho vissuto nella mia vita mi ha preparato per questo momento", come questa affermazione è vera per lei? Qual è la domanda su cui si fonda il suo lavoro? Cosa c’è al cuore della sua ricerca?
La frase è interessante e suggestiva, forse un pelo enfatica, ma la condivido in questo senso, se per questo momento non intendiamo solo il COVID, ma tutti quei momenti che nel corso dell’esistenza individuale e collettiva si infrangono contro il muro di una crisi che mette in discussione tutto a partire dalle fondamenta del quotidiano, della percezione, del sentire… allora sì posso dire che ciò che ho vissuto mi prepara a questo. Ho una formazione da antichista e mi sono molto occupato di testi greci, poetici, filosofici, tradizioni del mito, ma sono anche un antichista eccentrico e mi è sempre interessata la dimensione di un’onda lunga di un antico che innerva la modernità, la contemporaneità e si rinfrange in molti modi diversi. Credo che l’esperienza della tradizione antica, da quella classica a quelle dell’India, degli estremi Orienti o dei nativi americani, è l’occasione per fare un’esperienza di spostamento dei modi della visione. È un’occasione di un confronto con qualcosa d’altro dal presente che dovrebbe auspicabilmente s-centrarmi dalle convinzioni che plausibilmente mi sono state trasmesse dalla più immediata contemporaneità. Quindi farei esperienza di un radicale altro, “altro” come modo di percepire la realtà, di concepire la relazione con lo spazio e con l’ambiente e di immaginare anche il soggetto umano. Se volessimo usare una parola che ai filosofi contemporanei piace dell’esperienza della tradizione antica, è l’esperienza di eterotopia, mettersi altrove, lanciarsi in un altrove e vedere che cosa accade nella nostra soggettività, cioè se troviamo dei fili di continuità o se troviamo delle possibilità di pensare, di essere e di sentire in un modo del tutto diverso.
Per me è stato così e se dovessi aggiungere un’osservazione anche più personale, per me il rapporto con l’antico è anche intriso di nostalgia… ma mi spiego meglio per non essere frainteso. La nostalgia è il senso di un qualcosa di lontano di cui percepisco una relazione di appartenenza, come la “terra perduta”, etc. Noi normalmente percepiamo la nostalgia rispetto al nostro passato e sicuramente le tradizioni antiche sono anche storicamente un passato, ma credo che la nostalgia sia qualcosa che ci mette in rapporto ad orizzonti perduti, non per sprofondare nel passato ma come possibilità di immaginare il futuro. La nostalgia è il sentimento di un “non ancora” che “può essere” nel riannodare tanti fili diversi della tradizione umana. Inoltre, la nostalgia è quella cosa bellissima che in Novalis è rappresentato dal Fiore Azzurro, ed è un simbolo molto forte di rigenerazione, sia a livello soggettivo che a livello collettivo.
Considerando il Corona virus quale evento contemporaneamente individuale e collettivo, quale possibile sintesi diagnostica e di intervento è possibile esprimere tenendo conto delle due modalità comunicative, segnica (cioè legata alle modalità in cui tale virus circola nell’organismo) e simbolica (cioè legata alle alterazioni del codice simbolico, espressione dell’inconscio individuale e collettivo)?
Innanzitutto parto da un aspetto personale, perché penso che tutto ciò di cui parliamo alla fine acquista una dimensione di verità nel momento in cui c’è, insieme al pensiero, anche il vissuto che si interseca. Ho vissuto l’esperienza del corona virus per 46 giorni e quello che accade nell’organismo lo si vive… non con lo sguardo del medico, ma con il respiro che si spezza, il cuore che impazzisce, sono cose che accadono e che mi sono accadute, nonché nell’esperienza di accompagnare fino alla soglia ultima persone a me care o altre mai incontrate prima. Dico questo perché in ciò che è accaduto e nelle reazioni delle singole persone, nonché in ciò che hanno fatto risuonare i media e la politica, ci sono chiaramente la giusta cautela e l’allarme delle misure della pandemia quale fenomeno ignoto che si presenta, ma ignota non è la morte, ignota non è la malattia… a me pare che quello che è stato evidente, che è stato portato fuori da una dimensione di latenza, è una sorta di reazione di panico, perché molti di noi sono abituati a non pensare alla morte, non l’hanno mai vista da vicino, la si rimuove in un’idea astratta di felicità senza fine dove la morte non ha alcuna parte. Quando si rimuove in modo così pesante una dimensione come questa non possono derivarne che reazioni paranoiche e isteriche nei confronti di quello che ci minaccia. Il sentimento della finitudine umana, legata alla compagine corporea, questo piano di manifestazione, è qualcosa che dovrebbe essere molto presente alla consapevolezza di ognuno perché questo ci dà uno sguardo e una misura diversi nell’affrontare emergenze come questa del corona virus. Perché ogni forma, come dice Ervin Laszlo, sorge, si stabilizza e quando la sua funzione è cessata, questa forma si dissolve liberando energia e coagulando qualcosa d’altro. Non credo che l’esistenza sul piano della manifestazione di ciascuno di noi, anche a livello collettivo, sia differente. Oltre ad avere il tema della morte, nel cuore stesso della vita, come il suo necessario corrispettivo, dovremmo considerare di essere una delle tante forme della realtà universale. Dal punto di vista evolutivo ci è stato affidato un compito, ma è anche possibile che questo compito ad un certo punto giunga al termine tanto per il singolo quanto per il collettivo, e che altre forme di vita e di coscienza si manifestino. Se acquisissimo maggiormente la consapevolezza di questo, affronteremmo diversamente sia la quotidianità normale, sia le crisi. Si parla tanto dell’orizzonte del post-human che ha accenti e sfumature diversi, dai più tecnologici come l’ibridazione uomo-macchina, il vecchio Manifesto cyborg di Haraway a cose molto più vicine come Collasso di Nick Land e testi di questo genere… ma mi fermerei anche un po’ prima: ogni uomo, ogni singolo uomo è una forma fra tante forme e quando i compiti finiscono, le energie intelligentemente si riaggregano in modo diverso.
Il Corona virus è una pandemia che va ben oltre una crisi sanitaria per quanto critica ed estesa a livello globale. È un pandemia che affonda le sue radici nel “riduzionismo” tipico dei nostri sistemi economici, politici, educativi che ignora i limiti della reale capacità biologica del nostro pianeta sfruttandone in modo prodigo e capriccioso le risorse vitali, mentre utilizza insufficientemente le capacità umane. Cosa ne pensa?
Non voglio essere profeta di sventura, ma credo che questa non sarà l’unica crisi nel giro di un tempo abbastanza prossimo, perché troppe forzature e ferite sono state inflitte a Gaia e troppa inconsapevolezza ha abitato gli esiti più recenti, inoltre escono dalla latenza non solo contraddizioni che stavano lì da tempo, ma anche la rottura molto più radicale di un equilibrio. Penso che il Corona virus sia un primo aspetto di una grande Opera al Nero. C’è chi concettualizza, parlando di post-modernità, di cosa sarà il dopo, legandoci a parole come post-politica, post-capitalismo, post-moderno, etc. perché siamo in una fase di transizione in cui sappiamo, anche se non tutti ne sono consapevoli, che ci sono modelli della soggettività e della razionalità che hanno occupato gli ultimi secoli e che sono venuti al termine. Hanno esercitato la loro funzione, perché c’è una dimensione di un Io calcolante che doveva raggiungere un certo livello evolutivo, ma ha dovuto arrestarsi per una sua compensazione. Quindi stiamo vivendo uno degli scenari di una grande Opera al Nero in cui vanno in putrefazione tutte queste forme che avendo esaurito la loro funzione, si attardano in un’opera di resistenza rispetto alla necessità di creare delle sintesi completamente nuove che implicano una nuova visione e anche una nuova sintesi perché dimensioni come l’analogico, il linguaggio del simbolo, il digitale, etc. possano sintetizzarsi in un nuovo paradigma di coscienza. Un nuovo paradigma che sia capace di liberare e attivare delle facoltà – che credo presenti nell’essere umano, ma non ancora sufficientemente o per nulla sviluppate – che hanno a che fare con la capacità di vedere, sentire e percepire al di là delle normali dimensioni dello spazio-tempo in cui viviamo. Sri Aurobindo parla di supercoscienza, oggi si parla molto di coscienza collettiva, ma molto spesso la si dà in rapporto ad un’interazione di informazioni, quindi la si riferisce alla dimensione della rete e del digitale, ma la supercoscienza è un concetto un po’ più complesso che non ha che fare con il solo scambio di dati.
Albert Einstein raccontava che le nozioni di base che lo condussero alla formulazione della teoria della relatività erano emerse quando lui aveva immaginato di “viaggiare su un raggio di luce”. Qual è il ruolo dell’immaginazione nella creazione di nuovi scenari futuri?
È una delle facoltà essenziali della nostra specie. Potrei rispondere citando un autore a me caro come oggetto di studi e che mi ha riservato percorsi personali, mi riferisco a Henry Corbin, lui studiando la Persia, il mondo persiano, la mistica e gli scenari del sufismo, parla del mundus imaginalis, questa sorta di dimensione intermedia che non è una fantasia soggettiva o un’immagine che neurologicamente si forma nella mente, ma è un dimensione ontologica laddove prendono forma e rappresentazione gli archetipi e laddove trovano la loro verità e trasfigurano mostrando il loro vero volto le realtà presenti sul piano della manifestazione. È il luogo in cui letteralmente accadono le visioni, le profezie, i miti, la poesia… è lo spazio dell’anima, l’anima che conosce se stessa se non attraverso le immagini. Non sono solo immagini di una psicologia individuale, ma sono rappresentazioni di forze che popolano e muovono una realtà sottile che credo ovunque pervasa di coscienza. Corbin ha reso famosa questa dimensione del mundus imaginalis, ma anche l’antichità greca classica, il mondo platonico mostrano molto bene cos’è l’immaginazione per accedere ad un’esperienza dell’essere. In tempi recenti, sono tutti concetti che Jung ha riportato all’attenzione attraverso l’immaginazione attiva, non solo lui, ma lui ha dato un grande contributo molto forte in questo senso e ne ha dato una testimonianza con il Libro Rosso dove pratica l’esercizio di immaginazione a partire da una sua crisi personale fino a sentire una guerra che si stava approssimando, un’Europa che stava collassando, quello diventa anche il luogo dove attraversando fino in fondo con la pratica di scrittura e disegno, lui trova anche la via e la strada non solo per immaginare il suo insegnamento nei termini della psicoanalisi, ma anche una visione del mondo. Ad un certo punto, è cruciale la riflessione che lui fa su ciò che deve venire, su ciò che è all’orizzonte. Anche in uno dei miei libri parlo degli antichi simboli che nei momenti di crisi ritornano, ma non nella letteralità e nell’energia cristallizzata del loro passato, ma in tutta la potente creatività di qualcosa di nuovo, di una nuova sintesi. L’idea dell’evoluzione che comporta una spirale, di un movimento che si allarga e che si avvolge, significa che ci sono cose che ritornano, e ciò che ritorna del simbolo è sempre coagulazione di energia che in aggregazioni diverse apre la possibilità di nuovi futuri.
Al di là delle “divisioni” religiose e dei differenti “credo”, quale è l’importanza della dimensione spirituale e come renderla concreta nel nostro quotidiano?
Questo è un discorso essenziale, è una domanda cruciale e anche molto delicata in un discorso pubblico perché ci si interfaccia come una molteplicità di sensibilità e di identità che reagiscono in vario modo. Fra chi non crede in “nulla”, fra chi si sente assolutamente iscritto in una specifica tradizione, ma dove spesso è confuso il confine fra ciò che è politico-storico e ciò che è trascendente. Se dovessi dare una risposta personale credo che si possa vivere la quotidianità come l’occasione costante di un’ierofania, ossia cercare di vedere le cose con l’immagine di un bambino come se fosse la prima volta, ma anche come accoglimento di una presenza in un fiore, pianta, essere umano, etc., e anche la dimensione di una connessione. Quando parlo di ierofania e di sacro, spesso le persone dicono “parli di religione?”. No, quando parlo di “sacro”, parlo di una percezione profonda della connessione fra gli esseri. Il “sacro” è un’esperienza pulsante nel quale uno avverte la pienezza di un intero, che possiamo chiamare “dio”, “noi stessi”, ci sono tradizioni in cui conoscere “dio” è conoscere se stessi, affermazione che può sembrare eretica o blasfema, ma per me è sentirsi profondamente connessi, uniti… anche se può sfuggire alla mia coscienza perché ne colgo solo un raggio, un barlume di un’unità psicofisica in cui tutto è coscienza. Ci sono modi e pratiche in cui ognuno di noi può fare esperienza di questo, seppur in modo infinitesimale.
“Essere il cambiamento” da un lato è un concetto appassionante perché ricco di potenziale, ma dall’altro tocca paure profonde. Se la trasformazione della totalità richiede un cambiamento interiore su una scala che molti non hanno mai sperimentato, siamo davvero pronti per questo cambiamento? Quali sono le capacità e le conoscenze che, a livello individuale e collettivo, è necessario sviluppare o potenziare per contribuire ad una comprensione più autentica della vita e per scoprire chi siamo veramente e che cosa vogliamo diventare come società?
Non siamo pronti, ve ne è tutta la necessità e anche lo smarrimento difronte alla necessità stessa.
Si potrebbero dare tutta una serie di risposte a questa domanda, ma mi limito a dire questo… credo molto nelle “isole di luce”, credo molto nel fatto che a fronte della crisi da una lato e del cambiamento dall’altro e a fronte di una difficoltà della politica e delle istituzioni ad affrontare questo cambiamento, siano molto importanti tutte quelle dimensioni di micro-comunità che esercitano e praticano forme di cambiamento di sé, dello sguardo, della visione e della relazioni con gli altri. Magari non ponendosi necessariamente nella dimensione di iniziative che abbiano, come oggi spesso si cerca, grandi dimensioni di visibilità, ma la creazione di piccoli nuclei e gruppi. È importante che questo si moltiplichi e si espanda perché credo che questo possa avere un effetto di un contagio positivo non a breve, non esente da possibili fraintendimenti e incomprensioni, ma più i magneti si moltiplicano più qualcosa può effettivamente cambiare. Partirei proprio da questo, ossia che ognuno operi lì dov’è con le persone la cui energia attira o dalla quale energia è attirato, senza porsi il problema di grandi organizzazioni e grandi progetti, ma semplicemente di far vivere lì dov’è questa esperienza. Se ognuno di noi fa questo in punti diversi del pianeta, è già una cosa molto buona.
Il cambiamento in grado di fare la differenza avviene nella profondità del nostro cuore. Quanto c’è di vero in questo e come è possibile attivare questo processo?
Il cuore è lo specchio dell’invisibile, è il luogo dell’immagine, è il luogo di una trasformazione alchemica… L’altro giorno rileggevo una pagina di un poeta persiano Farid al-din 'Attâr, un autore principalmente noto per il testo Il verbo degli uccelli, ma in un’altra sua opera re-immagina la figura di Platone che, anziché fare il filosofo, fa l’alchimista. Dapprima si applica, fraintendendo l’alchimia come tutti, nella ricerca dell’elisir trasformando i metalli fisici in oro, ma dopo cinquant’anni in cui si è dedicato a questa pratica, essendoci peraltro riuscito, si rende conto che non serve assolutamente a nulla e dice “voglio fare alchimia con la mia stessa materia” e per un altro tempo lunghissimo si dedica a questa attività, ci riesce e va a trovarlo Alessandro Magno che cerca di interrogarlo per carpire qualche arcano, ma Platone dice che il silenzio è l’unica cosa in cui può operarsi la trasformazione. Quindi, innanzitutto bisogna fare il vuoto e poi devi trasformare tutto il cuore, in questa tradizione il cuore è l’immagine di uno specchio in cui tutto trova una dimensione unitaria. Come si fa, è un discorso lungo e innerva tradizioni che operano con ritualità differenti anche se il fine è lo stesso, ma implicherebbe il rapporto fra essoterico ed esoterico, anche questo secondo me è una delle dimensioni da tener presente sul discorso del cambiamento.
Può descrivere “GAIA AS IS & TO BE” utilizzando parole ed immagini atte a simboleggiarla. In altri termini quali immagini potrebbero esprimere, secondo il suo personale punto di vista, il nostro Pianeta nel tempo attuale e nel tempo futuro che si auspica?
L’immagine del presente è disforica, mi avevano molto colpito qualche anno fa le immagini del romanzo La strada di McCarthy, dove c’era questa sorta di strada, come idea di un cammino, dove un padre e un figlio si trovano in un post di un’umanità distrutta, un livello regressivo, animale, predatorio, quello della mera sopravvivenza, oppure potrei evocare La terra desolata di T.S. Eliot che è l’immagine dell’arsura, della terra crepata, della terra sterile, della terra secca, di un ventre infelice. L’immagine del futuro… per quanto scontata, ma coerente con il discorso fatto prima, ricordo le parole di Fechner con cui Corbin apre uno dei suoi libri dove invita ad immaginare la Terra come un angelo. L’angelo della Terra che, ancora una volta, non è solo questione di appartenenza religiosa o meno, parlare dell’angelo della Terra o di altro, significa mettersi nella prospettiva del “chi” e non del “cosa”, del vedere la Terra come una persona, come un organismo, un essere vivente e non come un oggetto.
Bibliografia di riferimento
Susanetti D., (2017). La via degli dei. Sapienza greca, misteri antichi e percorsi di iniziazione. Roma: Carocci
Susanetti D., (2018). La felicità degli antichi. Idee e immagini di una buona vita. Milano: Feltrinelli
Susanetti D., (2019). Luce delle muse. La sapienza greca e la magia della parola. Milano: Bompiani
Susanetti D., (2020). Il simbolo nell'anima. La ricerca di sé e le vie della tradizione platonica. Roma: Carocci
*Dr.ssa Alessandra Bracci - Manager presso una multinazionale automotive e vincitrice di premi nazionali ed internazionali nel marketing. Responsabile area editoriale ANEB. Capo Redattore della rivista MATERIA PRIMA - Rivista di Psicosomatica Ecobiopsicologica. Autrice di pubblicazioni in ambito scientifico.