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Intervista alla Prof.ssa Maria Pia Rosati

«La Rete della Vita»
Intervista alla Prof.ssa Maria Pia Rosati

a cura di Dr.ssa Alessandra Bracci
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Fino a qualche tempo fa la metafora centrale della società industriale occidentale era la “macchina”, un concetto che ha notevolmente condizionato la visione di tutta la realtà, portando gli uomini a pensare ad ogni cosa come a elementi dominabili, sfruttabili e correggibili. Purtuttavia, con sempre maggiore intensità sta emergendo una nuova metafora, quella della “rete” che consente di comprendere come ad ogni livello di osservazione i sistemi viventi sono intrecci di elementi che interagiscono in una struttura a rete con altri sistemi e creano, o ricreano, ininterrottamente se stessi affrontando continui cambiamenti strutturali pur mantenendo i propri modelli reticolari di organizzazione. Da una sorta di visione meccanicistica propria della “macchina” l’umanità sta assimilando il concetto di “rete” in cui si rende necessario che la condotta umana divenga sempre più consapevole di un senso di appartenenza ad una comunità di ordine più generale, quella costituita dalla Vita. In questo percorso di nuova assimilazione, che comporta necessariamente un cambiamento profondo, si continuano ad avvertire le correnti opposte e le resistenze tutte umane che esprimono l’eterno conflitto che mai si spegne fra conservazione e cambiamento, e ancora più l’inevitabilità di un loro confronto in una sintesi dialettica che non è mai, e non sarà mai, finita. Si tratta di un processo di cultura e di consapevolezza che diventa fondamentale per affrontare i problemi cruciali della nostra epoca che sono stati definiti “sistemici” in quanto fra loro interconnessi e interdipendenti.
Il mondo contemporaneo porta con sé innumerevoli domande che si fanno sempre più urgenti, e la sfida consiste nel promuovere l’evoluzione della coscienza che pare non procedere spontaneamente con sufficiente rapidità. In tal senso, accogliere la dimensione del mito e del simbolo può apparir strano, ma la sofferenza con cui abbiamo a che fare quotidianamente, e che vediamo in costante aumento, ha radici molto profonde e ci invita ad andare lontano alle nostre origini e, la frase “la vita da sola non basta alla vita” espressa dalla Prof.ssa Rosati in uno degli incontri avvenuti nelle nostre aule, intende ricordare che la nostra vita ha radici simboliche così profonde che, se le ignoriamo o tagliamo, viver non è più possibile. In questo senso, occorre ricordare che nella carta di identità dell’essere umano c’è la sua capacità di essere simbolico. Nel momento in cui l’uomo si interroga su se stesso e sul cosmo, diviene Homo symbolicus, cioè uomo inteso come creatore e fruitore di simboli, come colui che cerca di conservare, di dare sepoltura ai morti, di dare senso alla vita e alla morte collegando ogni momento della sua esistenza con qualcosa che lo trascende poiché sente la sua vicenda umana profondamente legata a quella del più ampio Tutto.
In questo percorso di confronto intitolato «La Rete della Vita», la Prof.ssa Maria Pia Rosati partecipa come ad una tavola rotonda, condividendo in libertà alcune riflessioni lungo un percorso intrecciato di letteratura, filosofia e psicologia del profondo. Laureatasi in lettere classiche e in psicologia, ha insegnato lettere nei licei, Psicoterapia analitica presso la scuola di specializzazione dell'Università di Trieste. È stata professore extrangero presso la Escuela de psiquiatria de la Universidad Complutense de Madrid. È docente e analista della Scuola di Psicoanalisi Interpersonale e Gruppoanalisi di Roma. Ha pubblicato Psicologia Medica con Giuseppe Campailla e numerosi articoli su riviste di psicologia e psicoanalisi italiane e straniere. È direttore di «átopon» rivista di Psicoantropologia simbolica e Tradizioni religiose. Ha fondato nel 1981 l'Istituto di Psicoantropologia Simbolica e Tradizioni religiose (Roma) e il Centro Studi Mythos con un gruppo di studiosi fra cui ricordiamo l’antropologo e saggista francese Gilbert Durand.

Tecnoscienza e globalizzazione
Nella nostra modernità o meglio postmodernità, sotto la spinta di una vertiginosa accelerazione dello sviluppo tecnico-scientifico, gli Stati si sono mossi verso un'unica società globalizzata. Questa corsa impegna e orienta la politica, l’economia, lo sviluppo culturale, l’assetto sociale degli Stati. Il dominio spetta a chi ha raggiunto un più alto livello tecnologico e, dunque, più potere. Il pensiero calcolante della tecnoscienza sembra rispondere o promettere una risposta ad ogni domanda dell’uomo che è frastornato da scoperte che comportano nuovi scenari di vita e che travolgono la capacità immaginativa umana.
I doni meravigliosi del progresso tecno-scientifico stanno obbligando ad una normalizzazione forzata, a standard di vita che debbono rispondere alla programmazione pianificata dagli algoritmi e dall’intelligenza artificiale. Tutto deve essere prevedibile e previsto in congruo anticipo dalle istituzioni sociali, economiche e industriali per garantire un efficiente funzionamento della società globalizzata.
La parola “libertà”, che dall’epoca dei lumi è usata come vessillo per ogni situazione, è divenuta parola ambigua, quasi irrisoria.
L’uomo, proiettato verso il futuro, diviene dimentico delle tradizioni ancestrali, della sua storia, della sua cultura, dei suoi miti. I miti, le eterne parole di un tempo senza tempo, hanno sempre raccontato i grandi sogni dell’uomo e anche le sue tragiche cadute (dal mito di Prometeo a quello di Icaro e di Faust). Da sempre l’uomo si è inevitabilmente scontrato con il problema del limite: il male, l’impotenza, la morte. Le più antiche culture (Egitto, Mesopotamia, India, Cina, mondo artico) vivevano in vibrante compartecipazione con la vita del Cosmo nel rispetto della voce del Mistero, dell’Invisibile, dell’Ignoto. Era conosciuta la potenza trascendente della physis della natura, degli elementi. L’uomo cercava di vivere in rapporto di rispettosa coesistenza con gli esseri animati, animali e vegetali, dai quali dipendeva la sua sopravvivenza. Temute erano le inviolabili leggi superiori.
Aristotele ha parlato della filosofia che nasce dalla meraviglia, il thaumazo, lo stupore riverente dell’uomo di fronte all’ignoto. Ma siamo nell’era del disincanto: nulla sembra più rappresentare un mistero, anche se sentiamo che il mistero è parte di noi e intesse la nostra storia. L’unico mito odierno sembra essere quello del progresso in continua accelerazione, pronto a varcare ogni limite.

L’uomo è antiquato
Proprio le più potenti acquisizioni della tecnica, possono improvvisamente, per accidenti casuali, essere fonte di immani tragedie e morti atroci. Ernest Junger ha visto l’affondamento del Titanic come l’emblema del fallimento insito nella cieca fiducia del progresso tecnico. «Il naufragio del Titanic è un simbolo grandioso, a cominciare dal nome stesso del piroscafo per arrivare fino al modo in cui avvenne il suo naufragio. È l’affondamento dell’idea stessa di progresso: la perfezione della tecnica è turbata dall’incidente; al baldanzoso ottimismo subentra il panico, al massimo lusso la distruzione, all’automatismo la catastrofe» (Gnoli, Volpi, 1997, p. 106). Per la prima volta accade che l’uomo compaia sulla Terra come colui che detiene le sorti della propria fine e di quella del mondo: «L’idea che la fine del mondo sia nelle mani dell’uomo e dipenda dalle sue decisioni è qualcosa di nuovo – anche nel caso in cui tale possibilità appartenga unicamente alla sfera dell’immaginazione» (Guerri, 2017).
L’uomo sempre più si sente antiquato; non regge il passo con le continue innovazioni che rendono immediatamente obsoleto l’ultimo prodotto della tecnoscienza. Si sente inferiore alle macchine, alla intelligenza artificiale i cui risultati sono ormai irraggiungibili per le capacità umane. Il filosofo Gunter Anders ha parlato di vergogna prometeica. Aveva vissuto nel suo arco di vita (1902 -1992) la tragedia di due guerre mondiali e la loro inaudita barbarie: i bombardamenti aerei sulle città che colpivano popolazioni inermi, i campi di concentramento, la bomba atomica che ha distrutto Hiroshima e Nagasaki, punto di non ritorno dell’umanità. E riteneva elemento ancora più inquietante la tecnologia e la sua capacità di autogenerazione: i mezzi rendono l’elemento replicabile e anche la morte diventa riproducibile, seriale. Anche se gli eventi di Auschwitz ed Hiroshima potessero essere rimossi dalla memoria «resterebbe intatta l’idea […] noi siamo incapaci di non potere più ciò che un tempo abbiamo potuto». Dunque ciò che ci manca non è il potere, ma il non potere.
Il processo di reificazione sta avanzando: tutto sembra dover diventare cosa, anche l’uomo diventa cosa tra le cose. Siamo nel regno della quantità di cui ci ha parlato Guénon. L’uomo può solo vantarsi di possedere, di consumare le cose che sono diventate il suo status symbol, la sua identità. Per Anders la vergogna prometeica va ancora più in là. L’uomo non si sente più orgoglioso di ciò che è nato dalla sua laboriosità in sintonia con il suo mondo, con la natura. Il suo esistere, il suo lavoro, hanno perso senso. L’idolatria dell’efficienza ha portato alla robotizzazione e a fare dell’uomo un ausiliario del robot. Bernanos diceva già negli anni ‘50 che bisognava fare in fretta per salvare l’uomo, perché dopo non avrebbe voluto essere salvato! Infatti… siamo al transumanesimo! L’uomo aspira a essere macchina, non cerca più sé stesso.
Freud aveva intensamente cercato le strade per comprendere la psiche umana nella sua complessità e nelle sue motivazioni più profonde, inconsce e aveva fatto sue le parole di Virgilio: «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo» (che si potrebbe tradurre «se non posso piegare le divinità d’in alto, [per riuscirvi] farò muovere gli Inferni [le potenze d’in basso]». Ma la nuova scienza, la psicoanalisi, per ottenere credibilità scientifica si dovette confrontare col pensiero positivista e finì col prendere le distanze dalla filosofia, dalla metafisica, dalla teologia. Jung comprese che le nuove prospettive della scienza, potevano essere una minaccia all’evoluzione psicologica e spirituale dell’uomo e cercò di ritornare alle scienze tradizionali, agli studi della gnosi, dell’alchimia, dando inizio nel 1933 insieme agli studiosi del circolo di Eranos, a quella che Hans Thomas Hakl ha definito An alternative intellectual history of the twentieth century.
Rimaniamo nella speranza che questo cammino intellettuale continui anche nel nuovo secolo e che la psicologia si apra sempre di più ad un dialogo transdisciplinare all’interno di un’unica ‘Scienza dell’Uomo’ che sappia guardare ad un tempo il Cosmo e l’Uomo che ne è microcosmo.

Pandemia
Il XXI secolo, e il terzo millennio sono iniziati con avvenimenti che hanno destabilizzato proprio le nazioni occidentali la cui potenza fidava sulla più evoluta potenza tecnologica. La distruzione delle torri Gemelle, il terrorismo, inquietanti focolai di guerre, disastri ecologici derivati dai turbamenti del clima e dello squilibrio dell’ecosistema, epidemie che si sono susseguite, fino all’ultima pandemia causata da uno dei virus che esistono da miliardi di anni prima che l’uomo fosse presente sulla terra.
Da sempre l’uomo ha dovuto affrontare malattie contagiose e spaventose senza strumenti tecnici e si è difeso seguendo le leggi della natura, alla pari delle altre specie viventi. Oggi proprio le nostre eccellenze si stanno mostrando inermi di fronte al nemico invisibile. L’uomo occidentale non è più preparato ad affrontare il rischio, a sopportare il dolore, la fatica fisica, a prepararsi alla morte. È spaesato di fronte all’imprevisto, alle improvvise calamità naturali, alle malattie che travolgono difese fisiche e psicologiche. Sembra aver perso la strada, dal momento che il progresso tecnico-scientifico si è rivelato inefficiente, se non causa del problema e ha perso la capacità di credere in se stesso e nella forza che gli proveniva dal vivere in sintonia con la natura, nel rispetto delle sue leggi.
La maggior parte della popolazione mondiale vive in agglomerati urbani sempre più vasti. Gigantesche costruzioni, frutto della più alta tecnologia, sono lo scenario opprimente dell’esistenza umana. Oggetti tecnologici capaci di sempre più numerose funzioni sono divenuti indispensabili alla vita quotidiana e ne siamo divenuti completamente dipendenti e schiavi. Ogni soluzione, ogni salvezza sembra possa venire solo dalla tecnica.
Attraverso il Web, la vasta ragnatela del mondo, è possibile l’immediata comunicazione con il mondo intero. Tutto sembra vicino e compresente. Eppure, mai come in questo tempo l’uomo è stato più solo ed isolato. Il grande numero d’informazioni continuamente trasmesse dai media, in cui le notizie più drammatiche si alternano con notizie di avvenimenti gioiosi, sportivi, fiction, etc., anestetizza la sensibilità umana. Culture antiche, custodi di preziose tradizioni millenarie, stanno sparendo. Anche le lingue che sono l’anima di tali culture cedono il passo alla più moderna e funzionale lingua della globalizzazione.
La società si sta sviluppando secondo un modello cibernetico, che ripropone apparentemente il modello della vita organica, ma i fini della tecnica non coincidono con quelli dell’uomo e al contrario comportano la rinuncia all’essere uomini, cioè a confrontarsi con il destino, l’esperienza e il mistero della vita e della morte.
Il movimento transumanista ritiene che le biotecnologie possano migliorare le caratteristiche fisiche e mentali dell’essere umano: l’invecchiamento e la morte possono essere evitati. L’immortalità potrà essere raggiunta estraendo meccanicamente l'essenza dell'individuo dal corpo. Ma «La mente è ben più di una somma di informazioni o di una massa di dati» dice il neuroscienziato Miguel Nicolelis «Il cervello, semplicemente non è computabile. Non può essere simulato» (O’Connel, 2018, p. 70).
Desidereremmo nostalgicamente tornare all’“umanesimo”, quando fiorivano gli studia humanitatis che riscoprivano la parola del passato, le lingue e i testi classici, che affermavano la dignitas e incoraggiavano l’uomo a farsi autore della propria storia, a guardare a nuovi orizzonti di apertura spirituale, a “vedere il centro ovunque e la circonferenza da nessuna parte”. Ricordiamo Francesco Petrarca, l’antesignano dell’umanesimo che dialogando in solitudine con gli spiriti più illuminati del passato intraprese il suo cammino di costruzione di se stesso e fu modello per la formazione di figure di altissimo livello culturale, morale, di cenacoli di letterari e artisti a cui possiamo guardare per ritrovare la responsabilità e la capacità di essere uomini.
Vogliamo, infine, accennare al rapporto tra arte e tecnica. I greci usavano la stessa parola teχνη techne per il lavoro manuale e per l’arte. Già i primi utensili usati dall’uomo, i primi segni, le effigi tracciate sulle pareti delle grotte erano arte simbolica: l’uomo esprimeva il suo ‘esserci’, il suo sentirsi. Presto però l’uomo ha creduto di poter utilizzare la sua prerogativa a suo vantaggio, dimenticando le leggi del Cosmo, finendo con il diventare cosa tra le cose, schiavo e vittima di ciò di cui si ritiene creatore e padrone. Tuttavia ogni caduta, insegnano le tradizioni sapienziali, è anche la possibilità di una nuova capacità di vedere, di una metanoia. Dante dopo esser passato per l’inferno e il purgatorio sentì la sua mente “percossa da un fulgore” e poté vedere una nuova luce: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il cielo e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 143-145).

Bibliografia di riferimento e link utili
Rosati M.P., sito web: https://www.atopon.it/
Rosati M.P., articoli Prof.ssa Maria Pia Rosati, clicca qui
Rosati M.P. (2012). Àtopon: luogo di ciò che è senza luogo, clicca qui
Rosati M.P., Campailla G., (1979). Psicologia Medica. Padova: CEDAM
Gnoli A., Volpi F.(1997). I prossimi Titani, Conversazioni con Ernst Junger. Milano: Adelphi
Guerri M. (2017). Ernst Junger terrore e libertà. Milano: Agenzia X
O’Connel M. (2018). Essere una macchina. Milano: Adelphi

*Dr.ssa Alessandra Bracci - Manager presso una multinazionale automotive e vincitrice di premi nazionali ed internazionali nel marketing. Capo Redattore della rivista MATERIA PRIMA - Rivista di Psicosomatica Ecobiopsicologica. Autrice di pubblicazioni in ambito scientifico.