Le storie che curano
di J. Hillman
a cura di Dott. A. Sugliani
Ogni accadimento psichico
è un’immagine e un immaginare
(Jung)
In questo testo l’autore si pone la domanda di quali sono le basi della mente. Hillman esclude tutte le ipotesi neurobiologiche o linguistiche e afferma invece che la base della mente è poetica. “Tema di questo libro è la base poetica della mente. Esso si muove infatti nello spazio intermedio fra psicoterapia e letteratura, fra l’arte di curare e l’arte di narrare. Sebbene a prima vista sembri diretto al terapeuta, è in modo più nascosto indirizzato allo scrittore” scrive Hillman come incipit nell’”introduzione” al testo.
L’autore intende il termine “”poetica” nel senso di poiesis, di fare, di produzione immaginativa, la psiche ha la caratteristica fondamentale di produrre immagini. Hillman nella sua concezione della psicologia archetipica, si spoglia di tutte le etichette nosografiche e diagnostiche che “letteralizzano” gli eventi e le esperienze, per evidenziare invece il potere curativo delle immagini, che si palesano nel corso di una psicoterapia. Quest’ultima è vista come un’arte narrativa che affranca il “mondo sottile delle immagini dal mondo grossolano dei fatti, e volge l’anima verso gli Dei”.
Il testo prende in considerazione di come i tre padri della psicoanalisi, Freud, Jung e Adler abbiano espresso le loro teorie come dei “romanzi”, con i loro stili letterali - la storia del movimento psicoanalitico è di per sé come un romanzo continuo -, afferma Hillman, e di come ogni teoria e prassi psicoterapeutica abbia come sfondo una dimensione mitologica.
Non a caso Freud pone come pietra angolare della sua teoria-prassi il mito di Edipo, e Jung, nella sua discesa ad inferos e nella sua rêveries, in quelle immagini mitiche, numinose e archetipiche quali Filemone, Salomè, il serpente nero; mentre in Adler sono gli inferiores, il punto di minor resistenza, lo definisce Hillman, dove si annida e si palesa il dio Ade.
Le storie che vengono raccontate (e ascoltate) sottostanno al dio Mercurio quando si aprono a continui e cangianti orizzonti, al dio Dioniso nello scorrere incessante e continuo della vita, impetuosi e travolgenti con Marte e sinuosi e sensuali con Eros e Venere. In ogni caso è il mythos che si fa parola, narrazione, con tutte le derive, le finzioni, le trame, le maschere, gli intrecci, i flashback, i frammenti tipici di un romanzo. “Le trame sono miti, ed è nei miti che vanno ritrovate le risposte basilari al perché di una storia. Ma un mythos è più di una teoria e più di una trama: è la favola dell’interagire dell’umano e del divino”. Ma questo “interazione” umano-divino si palesa attraverso l’ascolto dell’Anima, del suo patologizzare, delle sue idiosincrasie, dei suoi moti discontinui, del suo continuo divergere dagli usi e dalle consuetudini, per rimarcare il suo carattere mitico.
Dalla biografia lineare, dalla disamina dei fatti nudi e crudi tipici del caso clinico, laddove Hillman ne denuncia la mentalità tipicamente letterale, si passa agli aspetti romanzeschi. Hillman ne fa una disamina sugli aspetti epici (la lotta dell’Io per svincolarsi dalla dimensione uroborica); comici (inadeguatezze, goffaggini, identità sessuali incerte), polizieschi (rintracciare e seguire gli indizi, smascherare trame occulte) e realistici (esposizioni minute di fatti verosimili: la famiglia disagiata, le condizioni ambientali, ecc.). L’inconscio, scrive Hillman, “produce drammi, invenzioni poetiche: è teatro” e aggiunge “Le nostre storie cliniche sono fin dall’inizio, in un mondo archetipico, drammi, e noi siamo maschere (personaè) attraverso cui risuonano (personare) gli Dei.
La psicologia, secondo Hillman, è sempre politeistica e dovrebbe evitare gli schematismi, i DSM, le categorie, le nosografie e dovrebbe invece rivolgersi alla letteratura. Se quest’ultima si è “nutrita” a piene mani del discorso psicoanalitico, tocca ora alla psicologia cogliere quanto di narrativo c’è in essa. In questo modo la terapia diventa un’arte delle immagini e delle parole; l’analista si fa co-costruttore di storie, di racconti dotati di senso, trasformando la psicologia in un romanzo. Per questo motivo Hillman chiama la terapia un “romanzo terapeutico”. E aggiunge: “Una terapia riuscita è quindi una collaborazione fra narrazioni, una revisione della storia in una trama più intelligente, più immaginativa, che implichi altresi il senso del mythos in ogni parte della storia.
Compito della psicologia e della psicoterapia è dunque “deletteralizzare” e dare ampio spazio alla voce dell’Anima, tramite la facoltà dell’immaginazione, per poter abitare un mondo immaginale e recuperare quell’afflato vitale, mortificato da un pensiero lineare, razionale e segnico, che consente di adattarsi armonicamente a quell’ordine invisibile che permea e sussume ogni ambito vitale.
J. HIllman, (1983), Le storie che curano, Raffallo Cortina, Milano, 2021
Sinossi
“Le storie che curano” è un testo di Hillman, in cui l’autore, attraverso una disamina dei fondatori della psicoanalisi (Freud, Jung e Adler), analizza non tanto le loro biografie, ma i loro stili letterari, differenti per stile e trama, per ritrovare quello sfondo mitico da cui sono emerse le loro concezioni psicologiche e le loro prassi terapeutiche. L’Autore, scevro da ogni aspetto scientifico, riporta la psicologia nell’alveo di un’arte, quale la letteratura, dove l’analista si fa artista, romanziere, finanche poeta e la parola, la “talking care” di memoria freudiana, tolta dalla freddezza della clinica, ritrova quel “potere terapeutico” in grado di intrecciare in una nuova trama, sia la vita del paziente che del terapeuta.
Dr. Aurelio Sugliani - Laureato in psicologia. Responsabile Gestione Sistemi informatici e Area web ANEB. Collaboratore di Materia Prima. Autore dei libri “Tex Willer. Tra mito e archetipo”, “Nekya: sentieri di conoscenza” e “Voci, racconti e narrazioni del corpo”.