A casa… con gli altri
* A cura di Costanza Ratti, psicoterapeuta ANEB
Dopo mesi di lockdown, in cui ci siamo ripiegati nel guscio ovattato della nostra interiorità o siamo stati costretti a vincere la ritrosia ad uscire per necessità, l’estate è stata, per chi di noi ha avuto un tempo vacante da godere, un ritorno al fuori del mondo, all’aria aperta, al senso di libertà dell’esserci e del muoversi in quella zona intermedia tra la terra e l’aria che è la casa dell’homo sapiens.
Con le giornate lunghe e il tepore estivo fin a tarda sera siamo tornati ad espanderci dopo mesi di contrazione, recuperando in parte quel ritmo naturale fatto di apertura e chiusura, inspirazione espirazione, gonfiare e svuotare che regola la prima funzione dell’uomo in rapporto con il mondo.
Come si presenta allora questo autunno intra-covid? Non lo sappiamo, o meglio non lo sappiamo con sicurezza. Quel che è certo però è che qualcosa vuol ricominciare, che settembre non sarebbe tale se non portasse con sé il gusto semplice della vita quotidiana che riprende il suo ritmico vigore e il miraggio di qualche novità da apportare all’anno (non solare, ma scolare) che comincia.
Tempo dunque di tornare a casa e di fare casa…
Casa è una parola latina che sta per “casa, capanna, tenda” con un’accezione di semplice e provvisorio che la distingue dalla più istituzionale domus, che era l’abitazione, la dimora padronale. La radice indoeuropea “ska” la si ritrova anche nel greco kasa“capanna”, kas “pelle”, kasas “gualdrappa, tappeto” e nel sanscrito chaya “ombra” e chadati “coprire”, poi evolutasi nelle lingue moderne ad esempio nel tedesco haus e nell’inglese house. Sembra dunque che la casa sia quella rudimentale copertura sotto la quale gli uomini si ritiravano per proteggersi dal caldo, dal freddo, dalla notte e dai suoi predatori, dalla pioggia ecc. recuperando il senso di sicurezza dato dalla delimitazione che il tetto/pelle offre rispetto al mondo esterno e quello che deriva dalla vicinanza con gli altri (dalla stessa radice greca anche kasis, “fratello, sorella”).
Eppure, sappiamo bene che il senso di “essere a casa” è tanto potenzialmente naturale e familiare quando l’abitiamo, quanto apparentemente lontano e difficile da raggiungere quando ci troviamo all’addiaccio, esposti alle intemperie interne ed esterne.
La grande mole di studi e ricerche sul trauma che nell’ultimo decennio hanno visto la collaborazione delle neuroscienze, della teoria dell’attaccamento e della psicoanalisi si stanno impegnando in maniera congiunta per capire gli effetti del trauma relazionale precoce sul funzionamento del nostro sistema nervoso e sulla strutturazione di un senso stabile di sicurezza. “Casa” per chi è reduce dal trauma non è il punto di partenza da cui esplorare il mondo ma il luogo da raggiungere, da restaurare o riscostruire.
Tra i più recenti studi, la teoria polivagale sviluppata dal neurofisiologo Stephen Porges, poi tradotta in un modello di applicazione terapeutica da Deb Dana, inserisce un tassello importante nella comprensione del trauma in relazione all’attivazione del sistema nervoso autonomo. In 40 anni di studi, Porges ha scoperto che il sistema parasimpatico, di cui si conosceva la funzione primitiva di inibizione/collasso (sistema rettiliano) di fronte al pericolo, dispone in realtà di due diversi circuiti vagali provenienti da periodi diversi della nostra storia filogenetica: uno, appunto, più antico, dorsovagale, che controlla le funzioni viscerali di base al di sotto del diaframma (stomaco, intestino tenue, colon e vescica) contribuendo all’omeostasi; e uno più recente e mielinizzato (ventrovagale) che governa le funzioni viscerali superiori dei polmoni, della faringe e del cuore e regola i muscoli del collo, del volto, della testa che servono all’interazione sociale. Questi due circuiti, insieme al sistema simpatico sarebbero responsabili di tre diverse risposte automatiche di fronte al pericolo. Quando il contesto interpersonale è vissuto come sicuro e capace di regolare le emozioni, di fronte a una minaccia di lieve o media intensità, si attiva il sistema ventrovagale, il più evoluto, che induce una diminuzione del battito cardiaco e stimola l’ingaggio sociale tramite le espressioni facciali e le vocalizzazioni indirizzate a cercare protezione e riparo presso le persone che ci circondano. Viceversa, quando la co-regolazione non è sufficiente o è inadeguata a far fronte a un pericolo, scatterà il sistema simpatico con la sua tipica reazione di attacco-fuga, uno stato di iperattivazione (iperarousal) caratterizzato da aumento della tensione muscolare, dell’ossigenazione, del battito cardiaco e da emozioni di paura e rabbia, necessarie per impiegare delle energie in un’offensiva o in una ritirata. Infine, in caso di grave pericolo, quando anche quest’ultimo meccanismo non sia sufficiente a garantire la sicurezza, si innesca il sistema dorsovagale che determina uno stato psicofisico di rallentamento/immobilizzazione (ipo-arousal) con i correlati psicofisici dell’ottundimento mentale, tristezza, disgusto, paura, sguardo vacuo e spento, perdita del tono muscolare, senso di pesantezza, riduzione dell’apporto di ossigeno ecc., volti a simulare una morte apparente, come difesa strenua dal pericolo.
Secondo Porges i tre sistemi sono articolati tra loro gerarchicamente di modo tale che se le condizioni esterne non permettono l’attivazione del sistema ventrovagale più evoluto, si attiveranno a cascata gli altri due per garantire la sopravvivenza. La flessibilità tra i sistemi è fondamentale per assicurare risposte adeguate all’entità delle minacce, tuttavia quando l’impossibilità di accedere a modelli di co-regolazione (ventrovagali) diventa persistente (a causa di assenza o inadeguatezza del partner di sintonizzazione), il soggetto rimarrà imbrigliato in sistemi di difesa più arcaici vivendo in un costante stato di allerta o di rallentamento, non mediato dalla coscienza (neurocezione di pericolo) e responsabile di alcuni quadri di disagio psicologico (in particolare ansia e depressione). “I percorsi di connessione vengono rimpiazzati da pattern di protezione” e il sistema rimane “bloccato in modalità sopravvivenza” (Dana D. 2019, prefazione all’edizione italiana di Caretti, Scalea, p. X).
Come molte altre scoperte in campo neuroscientifico (neuroni specchio, studi sullo sviluppo degli organi di senso), la teoria di Porges, che ha un’ampiezza e una complessità che vanno ben al di là di queste poche righe descrittive, conferma che l’uomo è un essere sociale e che l’esperienza della relazione non è un accessorio, quantunque fondamentale della crescita, ma il suo medium principale. Il nostro cervello è predisposto per usare l’altro come partner di apprendimento, maturazione e regolazione emotiva, “c’è un’aspettativa neurale di reciprocità e sintonizzazione” (Porges) che se viene disattesa richiederà uno sforzo relazionale successivo per essere ripristinata.
Si fa sempre più empiricamente consistente l’intuizione dell’ecobiopsicologia che non solo la psiche è incarnata in un corpo, ma che lo psicosoma è radicato in un mondo, in un ambiente, in una casa (gr. òikos da cui il prefisso eco-).
Allora fare casa, fare pelle avrà a che fare anche con il sentire progressivo, nostro e dei nostri pazienti, che – oltre gli automatismi del sistema nervoso autonomo reso ultrasensibile dalle esperienze passate – delle buone relazioni, quelle che possono accogliere anche rotture e riparazioni (Porges), si può godere e che quel piacere è un mattone fondamentale della sicurezza, del “sentirsi a casa”.
Bibliografia
Dana D. (2019), La teoria polivagale nella terapia. Prendere parte al ritmo della regolazione, Giovanni Fioriti Editore, Roma.
Frigoli D. (2016), Il linguaggio dell’anima, Edizioni Magi, Roma.
Pianigiani O., Vocabolario etimologico della lingua italiana, riedizione (Anno 2014) on line sul sito www.etimo.it
Porges S. (2014), La Teoria Polivagale. Fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione, Giovanni Fioriti Editore, Roma.