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Cibo del corpo, cibo dell'anima

9 settembre 2019

Cibo del corpo, cibo dell'anima

a cura di Diego Frigoli, Mara Breno

Il pensiero Tradizionale attribuisce al cibo non soltanto il valore di nutrimento del corpo, ma anche quello di “sostanza” destinata a modificare evolutivamente la psiche e quindi l’anima. Nelle antiche Upanishad è detto che l’essenza del Divino la si ritrova come prima manifestazione universale nel cibo, ovvero in quella realtà spazio-temporale che in quanto “energia” è destinata all’accrescimento del corpo insieme a quello della coscienza. Più precisamente, le affermazioni presenti nella Taittirîya Upanishad, laddove dice «...Io sono il cibo, io sono il cibo, io sono il cibo, e sono colui che mangia il cibo nel grembo dell’immortalità...», ci rinviano a una visione sintetica e simbolica, secondo la quale “mangiare” equivale a estrar re le “energie” sottili degli alimenti onde accrescere la psiche stessa. Oppure, quando la medicina cinese afferma che a ogni organo fisiologico o stato psichico corrispondente è at tribuito uno specifico sapore alimentare, non è detto forse tra le righe che anche fra i cibi è possibile ritrovare l’identica armonia cosmologica presente nella fisiologia psicosomatica dell’uomo? Analoghe osservazioni possiamo ritrovarle anche nelle antiche scuole di medicina occidentale. Presso la scuola pitagorica, come ricorda il filosofo Giamblico, era in uso l’osservazione stretta di un regime dietetico semplice, che escludeva la carne e il pesce, a favore dei cereali, legumi e latticini; così come presso la comunità religiosa ebraica degli Esseni veniva rigidamente bandito, dalla mensa comune e privata, ogni cibo che provenisse dall’animale, mentre era consigliato un regime strettamente vegetariano. Se, dunque, “mangiare” significa assimilare, introiettare, portar dentro energie “sottili” provenienti dal cibo, un’analisi sulle caratteristiche simboliche del cibo specifico di un essere umano in particolari momenti della sua esistenza, potrà fornire informazioni sulla sua costituzione psicosomatica.
Per esempio, il latte umano è considerato dalla moderna pediatria come l’elemento indispensabile per l’accrescimento ottimale del corpo del neonato. Ma non va dimenticato che tale alimento, al di là della combinazione specifica di proteine, grassi, carboidrati, adatti alla specie umana e al suo accrescimento corporeo, nasconde al suo interno alcune valenze psicologiche importantissime per il corretto sviluppo psicosomatico del bambino. Innanzitutto, nutrirsi al seno implica un rapporto diretto con il corpo della madre e quindi con il suo calore e le sue emozioni. Una madre che ama il proprio figlio, durante l’allattamento non soltanto lo dimostra con tutta una serie di segnali extraverbali legati alla cura del neonato, ma anche con tutto quel mondo di emozioni implicite presenti nel latte stesso. Con l’alimentazione lattea il bambino sul piano nutritivo ha già compiuto un primo distacco dalla madre: nell’embrione e nel feto, infatti, la nutrizione è puramente passiva, simbiotica, ematica. Il taglio del cordone ombelicale stabilisce sul piano nutritivo la nascita di una nuova individualità, in cui si viene a perdere una nutrizione continua e osmotica, tipica appunto del feto, e si deve “conquistarne” una saltuaria e transitoria, legata alla percezione dei momenti di fame. È la nascita dei primi “isolotti” di coscienza frammentaria di un Sé corporeo. Come agli inizi della vita la madre nutriva con il proprio sangue il corpo del figlio in modo continuo e totale, ora, con il taglio del cordone ombelicale, anche la madre recupera la sua individualità e, così facendo, la determina nel figlio. Il loro rapporto nutritivo, a questo punto sarà legato solo saltuariamente al latte, un prodotto derivato per altro dal sangue, ma più evoluto e specifico, perché tipico dei mammiferi (mentre il sangue presente nelle specie inferiori si può considerare l’elemento nutritivo primario della filogenesi). Con lo svezzamento, segnalato nel neonato dalla presenza della prima dentizione, la diade madre- bambino “taglierà” nuovamente il simbolico cordone ombelicale legato alla dipendenza lattea, e inserirà quest’ultimo, tramite le prime pappe, nel mondo adulto degli onnivori.
Nella successiva crescita della prima infanzia e dell’adolescenza si assiste a un nuovo mutamento del rapporto con il cibo: sono queste, infatti, le età della vita in cui l’essere umano fa esperienza del mondo e delle relazioni con lo stesso, e, in corrispondenza di questi delicati periodi dell’esistenza, il cibo perde importanza nel suo valore nutritivo per assumere significati simbolici di relazione. Nell’infanzia usualmente si assiste all’enfasi della golosità per i dolciumi, simbolo sostitutivo della “dolcezza” delle carezze materne primitive, mentre nell’adolescenza esiste un maggior bisogno di “sperimentare” cibi nuovi, non più stabiliti in obbedienza alle regole della famiglia, ma a quelle del nuovo gruppo sociale cui si ambisce appartenere. Sono questi gli anni dell’alimentazione a base di panini e bibite, in cui ci si ribella al cibo familiare e, contemporaneamente, ci si adegua agli amici che si vanno scoprendo.
Gli anni dell’adolescenza sono anche quelli degli eccessi e delle intemperanze, e il cibo come la nutrizione sembrano risentire di tutto ciò; non ci si alimenta più secondo gli orari tradizionali, ma solo seguendo l’istinto della fame, a sua volta condizionato dalla volontà di ribellione alla famiglia. Nell’età adulta e della maturità in genere, il cibo deve rispondere a criteri di mantenimento dell’efficienza fisica e psicologica. Sono questi gli anni dominati dalla sessualità o perlomeno dagli investimenti libidici, per cui nell’uomo il cibo richiesto sarà quello a maggior valore nutritivo, mentre nella donna quello teso a non farla “ingrassare”. Il sottofondo psicologico in entrambi i sessi è scandito dal bisogno di efficienza fisica e di piacevolezza della propria immagine, a fini identitari e relazionali con l’altro sesso. Ci si sente rassicurati solo se si possiede un’immagine gradevole del proprio corpo destinata ad attrarre il partner, perché in caso contrario il corpo è vissuto in chiave depressiva, come primo momento di rifiuto rispetto a una identità che sta cercando la propria collocazione.
E con il passare degli anni...
Con l’età matura e senile l’alimentazione cambia nuovamente. Precisi segnali fisici determinati dalle malattie, o da una scarsa efficienza corporea indicano alla coscienza la fine della piena maturità fisica. Sono i primi capelli bianchi o i dolori ossei i segnali dell’arrivo, spesse volte avvertito come prematuro, di una nuova età della vita che chiude il ciclo aperto con l’infanzia. E come la prima dentatura da latte e poi quella definitiva aveva scandito il passaggio dall’alimentazione lattea a quella onnivora, segnando le tappe dell’infanzia e della preadolescenza, così i denti malfermi possono essere le prime manifestazioni dell’imminente vecchiaia. L’alimentazione allora diventa sempre più stereotipa e attraverso la ricerca di cibi poco elaborati e facilmente digeribili si va affermando la convinzione di scelte alimentari note, per evitare i rischi delle “novità” ormai troppo “indigeste” e “pericolose”.
A tratti però, in momenti particolari di ricorrenze o festività, si commettono i “peccati” di gola, gli unici che ancora ci si consente come forma sublimata di altri “peccati” rimossi. Non a caso tali “intemperanze” alimentari devono poi essere “espiate” duramente con un ritorno ossessivo a una regola alimentare dichiaratamente seguita a parole, ma troppo spesso puntualmente trasgredita nei fatti. Quante forme di diabete, o di ipertensione, o di dislipidemia riconoscono alla loro radice la necessità di trasgredire una regola alimentare, vissuta come troppo imperativa dalla coscienza per- ché metafora di altre proibizioni più inconsce? Nonostante sia presente una malattia conosciuta dall’individuo, vi è come un sottile piacere di trasgressione nell’eludere le rigide regole alimentari o di assunzione farmacologica pertinente al disturbo in questione. Quest’ultimo inconsciamente viene rimosso, e per un attimo, nella trasgressione, si sperimenta un riflesso antico dell’adolescenza, quando le uniche regole a cui ci si sottoponeva erano quelle stabilite dall’individuo stesso. È evidente, da queste brevi riflessioni, che la nutrizione ci mette in rapporto non soltanto con il mondo, inteso come “oggetto” nutritivo deputato alla nostra crescita fisica, ma soprattutto con una vasta serie di investimenti psicologici che noi facciamo sul mondo, e che pur rimanendo inconsci nel loro significato specifico, di fatto dimostrano come nel cibo si manifestino angosce esistenziali di altra natura e più globali.

Bibliografia
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Bruch H., (2003). La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale. Milano: Feltrinelli
Cogni G., Ahamannam io sono cibo. Mediterranee, Roma 1982
Frigoli D., (2016). Il linguaggio dell’anima. Roma: Magi
Frigoli D., (2017). L‘alchimia dell’anima. Roma: Magi
Shelton H., (1985). Il digiuno può salvarvi la vita. Gildone (Campobasso): Igiene Naturale Edizioni
Souzenelle de A., (2000). Il simbolismo del corpo umano. Milano: Servitium