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Il gioco interrotto e... tornare a giocare

7 Maggio 2020

Il gioco interrotto e... tornare a giocare

* A cura di Costanza Ratti, psicoterapeuta ANEB

In un articolo di qualche settimana fa, una mamma di un bambino di quattro anni, rivolgendosi alla classe politica, lamenta la mancanza di provvedimenti ministeriali destinati specificamente ai bambini della fascia di età di suo figlio che, non potendo andare all’asilo a causa del coronavirus e nemmeno compensare con i corsi online, hanno visto ridursi drasticamente la possibilità di interazioni sociali, giochi e stimolazioni cognitive. La donna dichiara poi, con un misto di preoccupazione e disappunto, che il figlio ha iniziato a giocare ripetutamente “all’ospedale” con annesse ambulanze, contagiati, bollettino pomeridiano dei nuovi casi, dei guariti, dei deceduti e aggiunge che tra questi ultimi talvolta compare persino lei.

L’aneddoto finale non può non strappare anche un piccolo sorriso a chi abbia letto almeno una volta un saggio di Freud. Ma non è qui mia intenzione focalizzarmi sul significato specifico del gioco di quel bambino, della sua relazione con la madre e di quella speculare della madre con le istituzioni. Mi vorrei invece soffermare in maniera più generale sul meccanismo della ripetizione del gioco che il piccolo mette in atto, a fronte di una situazione esterna vissuta con una dose di paura, incertezza, rabbia, frustrazione, quale quella che stiamo vivendo oggi.

Inevitabile ripensare al nipotino di un anno e mezzo di Freud che negli anni del primo conflitto mondiale, val la pena ricordarlo, aveva iniziato a lanciare ripetutamente un rocchetto di legno con attaccato un filo, accompagnando il gesto con una vocalizzazione simile a un “via” (fort, in tedesco), per poi recuperarlo ogni volta con un sonoro e soddisfatto “Da”, eccolo!

Ciò che colpisce qui è proprio la coazione con cui il bambino ripete il gioco. Freud vi legge un tentativo con cui egli si autosomministra la separazione dalla madre (che in realtà subisce) con il lancio del rocchetto, auspicandone il pronto ricongiungimento con il recupero dell’oggetto. Ma, pur nel lieto fine del gioco, non serve essere dei conoscitori della psicoanalisi per intuire che il carattere coattivo dell’azione sembra togliere qualcosa all’aspetto piacevole del gioco. Secondo Freud (1920), il gioco ha assunto una specifica funzione: padroneggiare le emozioni generate dalla separazione e autosomministrarsi una riparazione. Lo stesso, senza addentrarsi nelle specifiche del caso, potrebbe valere per il bambino dell’articolo: gestire la situazione emotivamente stressante del coronavirus, dichiarando tra l’altro l’esigenza di un ulteriore supporto materno nella comprensione dell’evento o nella creazione di iniziative alternative che controbilancino le emozioni negative.

Se questa funzione del gioco è temporanea e finalizzata alla riparazione e interpretazione simbolica di un particolare frangente è certamente utile e adattiva, soprattutto se la comunicazione viene accolta e interpretata dal caregiver e tradotta in atti relazionali congruenti. Come afferma Winnicot (1971), in questo modo, il gioco per il bambino è anche uno strumento per elaborare e superare le esperienze dolorose e traumatiche.

Ma cosa succede quando la ripetizione dell’azione non trova uno sguardo capace di rispecchiare quella domanda? Cosa succede quando il gioco deve necessariamente ripetersi per consentire una scarica emotiva che non trova altra elaborazione?

E’ come se il potenziale creativo insito nel gioco non fosse più disponibile, come se dei tanti giocattoli che il bambino ha a disposizione nell’armadio cominciasse a usarne sempre e solo uno, come se lo spazio delle possibili esplorazioni fosse via via ridotto. Il gioco allora non è più un vero gioco. Il gioco, come attività libera e piacevole, è interrotto.

La reclusione da coronavirus ci ha catapultato in una situazione in cui la libertà di esplorare il mondo, così come il gioco del bambino, è fortemente ridotta. L’intersoggettività, però, resiste grazie alle piattaforme online che stanno sopperendo, talvolta con positive sorprese, alla mancata interazione sociale vis à vis. Tuttavia, la nostra possibilità di giocare non può essere identificata esclusivamente con la possibilità di disporre liberamente del mondo fisico.

Winnicott (1971) descrive il gioco come uno spazio transizionale tra soggetto e oggetto in cui il bambino inizia a fare esperienza di sé stesso e del mondo esterno, vissuto inizialmente come non-me, mantenendo una forma di sicurezza e di familiarità maturata nella relazione primaria di accudimento (espressa attraverso l’oggetto transizionale). Nel gioco il bambino inizia a sperimentare le potenzialità della propria personalità grazie “alla sospensione del giudizio di verità sul mondo, a una tregua dal faticoso e doloroso processo di distinzione tra sé, i propri desideri, e la realtà, le sue frustrazioni. In questo modo, attraverso un atteggiamento ludico verso il mondo, e solo qui, in questa terza area neutra e intermedia tra il soggettivo e l’oggettivo, può comparire l’atto creativo, che permette al soggetto di trovare sé stesso, di essere a contatto con il nucleo del proprio Sé” (Crocetti, 2018, p. 397).

Eccoci al punto.

Il gioco interrotto avviene quando lo spazio della relazione, la prima palestra intersoggettiva dell’individuo, non è sufficientemente ampio e flessibile da accogliere i gesti di spontaneità del bambino; invece di birilli, corde, cerchi, nastri disposti in ordine sparso, il cui senso e forma, il bambino troverà giocando con la mamma che esclama il Da! (ecco!) di stupore di fronte ai primi maldestri tentativi del figlio, il bambino troverà un percorso più o meno predisposto e ordinato, fatto di salti con la corda, birilli da aggirare, cerchi da far piroettare, che egli svolgerà magari anche con divertimento, a seconda della sua capacità di riuscire in quello che fa, e a seconda del piacere che il genitore trova nel percorso che ha preparato, oppure con l’ansietà crescente che deriva dal fatto di esporsi precocemente ad un giudizio di giusto o sbagliato (o, nelle situazioni più complesse, da un insieme di indicazioni confuse e contradditorie su come usare quegli oggetti). Ma per quanto soddisfacente o frustrante possa essere quel secondo esercizio, non sarà realmente un gioco, gli mancherà il sapore dell’ignoto, il piacere della sorpresa e dell’inaspettato che nasce da sperimentare e scoprire sé stessi con la sicurezza di uno sguardo capace di sintonizzarsi, e il gusto che deriva due soggettività che si incontrano e creano insieme secondo codici non previsti.

Non poter fare esperienza della propria spontaneità rudimentale supportata dalla capacità di mentalizzazione del caregiver è l’esperienza del gioco interrotto, un gioco che è diventato precocemente esercizio, un gioco in cui il piacere della scoperta di sé ha ceduto il passo, ora alla soddisfazione/frustrazione rispetto a una performance, ora alle esigenze di scarica emotiva che non trovano una diversa possibilità di elaborazione. L’interruzione del gioco può verificarsi in molti frangenti della vita, dalle fasi più precoci (trauma evolutivo, trauma relazionale ecc.) a momenti di passaggio nel ciclo di vita, a situazioni esterne potenzialmente traumatiche come quella che stiamo vivendo oggi, che mettono la persona di fronte alla necessità di ricreare uno spazio transizionale dove fare esperienza di parti di sé, prima sconosciute, per ricomporle in maniera nuova. Come ci ricorda Frigoli, “gli eventi traumatici fanno nascere comunque nell’anima il senso di essersi incarnata come esperienza sempre vulnerabile ma aperta a una trasformazione infinita” (2017, p 299).

Riconnettere le parti della persona e renderle disponibili a una loro integrazione è il lavoro della psicoterapia, un lavoro complesso dove, come afferma Bromberg (2011), il terapeuta è ingaggiato come partner relazionale non soltanto riparativo, ma capace di creare uno spazio di sperimentazione “sicuro ma non troppo”, ovvero simultaneamente orientato alla sicurezza emotiva del paziente, ma anche alla necessità di recuperare, spesso dolorosamente e attraverso collisioni e negoziazioni (o rotture e riparazioni interattive, Tronick), le parti di spontaneità dissociate della persona dentro la relazione.

Così come la mamma dell’articolo potrà cogliere l’atto aggressivo/impaurito del bambino verso di lei e la situazione, senza risentirsi o preoccuparsi eccessivamente, tollerarlo e partecipare al gioco per darvi un nuovo significato e un nuovo indirizzo, analogamente la capacità del terapeuta di giocare con sé stesso, di legittimare dentro di sé, attraverso l’immaginario, le parti dissociate del paziente che chiedono un’esistenza relazionale e simbolica, è indispensabile affinché il paziente possa, con il tempo che occorre, riassemblare le sue parti e tornare a vivere e a giocare con il mondo e con sé stesso. “Credo che questo sia il significato di giocare che rende possibile quella negoziazione che conduce all’intersoggettività – il fare esperienza l’uno dell’altro come soggetti” (Bromberg, p. 18).

 

Bibliografia

Bromberg P. M. (2011), L’ombra dello Tsunami. La crescita della mente relazionale, Cortina Editore, Milano, 2012.

Crocetti G., Palloro, G., Agosta R. (2018), La psicoterapia psicoanalitica per l’infanzia e l’adolescenza nei contesti socioculturali attuali, Armando Editore, Roma.

Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, vol. 9.

Frigoli D. (2016), Il linguaggio dell’anima, Edizioni Magi, Roma.

Frigoli D. (2017), L’alchimia dell’anima. Dalla saggezza del corpo alla luce della coscienza. Edizioni Magi, Roma.

Winnicot D. (1971), Gioco e Realtà, Armando Editore, Roma 1974.