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Quando ridere trasforma il nostro corpo

16 luglio 2019

Quando ridere trasforma il nostro corpo

a cura della Dott.ssa A. Monti*

Da sempre il volto è considerato anima, lo strumento simbolico che rivela i moti interiori esponendoli alla vista degli altri.
Prima ancora delle parole o dei gesti, è sul volto di una persona che si può leggere tutto ciò che passa nella sua mente, cogliendo la gioia o il dolore, la sincerità o la falsità dell’animo.
Rispetto agli animali il volto dell’uomo presenta una serie di soluzioni espressive infinitamente più ampie e multiformi, proprio come i sentimenti umani sono senz’altro più sofisticati nell’uomo rispetto a qualsiasi specie vivente.

Il viso racconta l’anima
È vero che esistono in alcune scimmie e nei cani alcune espressioni caratteristiche, ma nel loro caso è molto difficile stabilire un’esatta corrispondenza fra eventuali stati emotivi e loro manifestazione mimica.
La gamma delle espressioni è tipica della nostra specie e va ad aggiungersi ad altre peculiarità come la stazione eretta, l’uso delle mani, la parola, la postura, ecc.: qualità tutte che contribuiscono a rendere la specie umana così eclettica nei confronti dell’esistenza. Attraverso l’analisi delle espressioni del volto possiamo avere un paradigma esplorativo della complessità della mente umana e dell’universalità delle emozioni.
Prendiamo ad esempio i sentimenti della gioia e la sua manifestazione somatica più evidente, quella del ridere, e seguiamola in tutte le sue relazioni psicosomatiche. Innanzitutto ricordiamo che l’atto del ridere coinvolge tutta una complessa catena di muscoli mimici, dell’area periorale e periorbitaria, oltre che delle ganasce e della mandibola, che presuppone una innervazione molto selettiva e specifica di tali zone, quali solo nell’uomo è possibile riscontrare.

Ridere porta più sangue al cervello
Il significato delle diverse espressioni della faccia venne studiato nel 1907 da un medico francese, Israel Waynbaum, che propose una ingegnosa teoria, in parte accettata dalla moderna psicologia.
A suo avviso i movimenti muscolari che modellano i lineamenti del volto di una persona per fargli assumere questa o quella espressione avrebbero il compito fondamentale di regolare l’afflusso di sangue alle aree superiori della testa e al cervello. I dati da cui partì Waynboun sono: l’approvvigionamento di sangue al cervello e alla faccia deriva dall’arteria carotide comune; l’arteria facciale è ricca di tessuto muscolare; il volto, pur essendo composto di segmenti ossei assai poco o niente mobili, è tuttavia riccamente ricoperto di muscoli.
Seguendo questi presupposti il medico francese pensò che la mimica facciale fosse una sorta di meccanismo omeostatico naturale per mantenere costante il flusso di sangue al cervello. Con la contrazione o distensione di muscoli, con la compressione o allungamento dei vasi sanguigni della faccia si viene a creare un rallentamento o un’accelerazione ematica che consente di riequilibrare la situazione circolatoria intracerebrale.
Modernamente gli studi dello psicologo americano R. B. Zajonic, riprendendo le osservazioni preliminari di Waynboum e correlandole all’attività dei neuromediatori cerebrali, sembrano evidenziare che esista uno stretto rapporto fra un atteggiamento mimico specifico e la temperatura e il flusso sanguigno in certe aree cerebrali in cui sarebbero secreti determinati neuromediatori importanti nel nostro comportamento.
D’altra parte è nota da tempo che l’espressione delle emozioni tramite attività muscolari, con le conseguenze circolatorie specifiche, è in grado di influenzare il sistema nervoso vegetativo, producendo effetti vistosi quali sbalzi della frequenza dei battiti cardiaci o nella temperatura cutanea.

«Ridere fa buon sangue»
È una curiosa metafora che come tutti i “detti comuni” riassume “un sapere” antico sul corpo, studiato oggi dalla moderna neurofisiologia. Questo aforisma ci “parla” di un sangue che si modifica, che si altera, in senso positivo, a seguito di una risata.
A questo proposito non dobbiamo dimenticare come il sangue rappresenta sempre la “fotografia” più precisa del nostro stato psicofisico generale, e che una sua “modificazione” presuppone un eguale cambiamento dell’intera unità psicosomatica.
Il detto «ridere fa buon sangue» è probabilmente molto antico, e si rifà sicuramente alla tradizione degli “umori” di Ippocrate e Galeno. Allora si pensava che l’umore malinconico andasse a impregnare il sangue di sostanze “velenose”, mentre si attribuiva al ridere una funzione di liberazione di sostanze “benefiche”. Sono forse le moderne endorfine scoperte dalla nostra neurochimica?

«Il riso è contagioso»
Questa è un’altra metafora che, come la precedente, ci rimanda a epoche molto antiche in cui il sangue era considerato il fluido della vita, non solo animale, ma in senso lato generale.
Più modernamente il sangue può essere considerato l’aspetto simbolico della libido (ossia l’energia “concentrata” che ci abita) per cui il “contagio” può essere spiegato come sollecitazione inconscia nell’interlocutore (o nella libido che lo pervade) di un atteggiamento mimico del volto destinato, come riflesso umorale, a provocare la liberazione di determinati neuromediatori responsabili del sentimento di gioia.
Non a caso infatti accade che quando una persona vede un’altra ridere liberamente, dopo un momento di curiosità iniziale in cui si vuol conoscere la causa del ridere, si disponga nel medesimo atteggiamento mentale con l’effetto di una vera e propria propagazione di ilarità.

«Ridere fino alle lacrime»
Un’ulteriore osservazione psicosomatica è che il ridere quando diventa eccessivo si conclude con le lacrime, ovvero con un atto finale tipico del piangere.
Il ridere e il piangere non sono altro che “eccessi”" di emozione, fenomeni estremi di un unico fatto  psichico intermedio, che gli antichi definivano come “serenità” o “imperturbabilità”.
In una prospettiva psicosomatica, le lacrime, per riprendere le osservazioni di Waynboum, sarebbero il risultato di un incremento pressorio nell’arteria lacrimale con riduzione di flusso nella carotide interna e quindi con temporanea anestesia per abbassamento della circolazione intercerebrale.
Infatti dopo aver pianto, non importa se per il troppo riso o per sofferenza e dolore psichico, ci sentiamo meglio e avvertiamo la necessità di riprendere psichicamente quell’equilibrio psicologico transitoriamente perso.
Il valore comunicativo e sociale del ridere è anche dimostrato dagli organi e apparati coinvolti. Infatti si ride sempre a bocca aperta, emettendo aria, grazie all’azione di espirazione della cassa toracica, mentre il piangere è costituito da una serie di brevi inspirazioni interrotte continuamente da contrazioni improvvise diaframmatiche. Quindi il ridere è una sorta di estroversione della libido, mentre il pianto ne rappresenta l’introversione.

«Ridere a crepapelle»
È una metafora che ci lascia intuire come l’atto del ridere sia uno scoppio di energia libidica che rompe le barriere simboliche (la pelle) del nostro Io, riempiendo di allegria tutto l’ambiente circostante e “contagiando”, come si diceva prima, chi si trova attorno a noi.
In questo senso il riso diventa qualcosa che travalica il singolo (contenuto nella sua pelle), per immergere il gruppo in un’unica atmosfera di allegria dove i confini individuali si fanno sempre più esili o addirittura inesistenti.
D’altra parte in tale metafora è implicito anche un sottile avvertimento: e cioè che l’eccesso del ridere potrebbe distruggere i confini dell’Io, lasciando libere le pulsioni senza alcun controllo, tanto che, come sempre la saggezza popolare ci ricorda, «il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi», cioè di chi non è capace di essere presente nel “qui e ora”, nella realtà che lo circonda.

Tratto da appunti e riflessioni del Dr. Diego Frigoli, a cura di dr.ssa Alessandra Monti