Simboli del corpo: la "materia" si evolve nel fegato
di D. Frigoli
Se in ogni mito bisogna rintracciare un rito più antico, e se dal rito risaliamo alle azioni emblematiche, espressione dell’attività archetipica, dobbiamo pensare che all’interno di ogni attività di pensiero collettiva si nasconda un “precipitato”, un “sedimentato” di materialità primaria, nato nell’oscurità germinativa della fonte archetipica. Ciò significa, in parole meno tecniche, che alla radice della nostra attività di pensiero si pone un substrato “materiale”, “organico”, affondato nell’humus della vita, capace di porsi come aspetto complementare e indispensabile alle attività più sottili della psiche. La psicologia analitica junghiana definisce questo aspetto, in grado di unire l’istinto e la vita psicologica, la materia e lo spirito in un processo unitario e indispensabile, come azione dell’Archetipo generatore, e per rendere più esplicito tale paragone lo qualifica con l’esempio seguente. Si immagini di voler studiare l’archetipo generatore di ciò che noi chiamiamo Luce: in ogni momento della vita luminosa noi avremo uno spettro di frequenze e di lunghezza d’onda peculiare. Le onde dei raggi infrarossi saranno disposte alla sinistra di chi osserva il foglio, al centro dello stesso si ritroverà la banda visibile dei raggi luminosi, mentre a destra dell’osservatore si ritroveranno i raggi ultravioletti. Ora, tutte queste radiazioni sono sempre presenti, ma il nostro occhio, abituato a distinguere solo le radiazioni luminose legate alla banda del visibile, non potrà evidenziare le radiazioni infrarosse e quelle ultraviolette nonostante esse siano di fatto presenti.
Se ora ci rapportiamo a un livello simbolico differente rispetto a quello dei raggi luminosi, e consideriamo lo spettro luminoso come analogo “spettro” delle emozioni dell’uomo, a sinistra di chi osserva il foglio saremo costretti a descrivere la vita istintuale, simile ai raggi infrarossi che come è noto riscaldano ciò che irradiano, mentre a destra descriveremo i raggi ultravioletti dotati di maggior penetrazione rispetto ai precedenti, e per corrispondenza lì ritroveremo le emozioni più spiritualizzate capaci di “permeare” di sé la vita psichica dell’individuo.
Tra questi due estremi, al posto di ciò che si era definito più sopra come banda del “visibile”, situeremo le emozioni ordinarie della nostra vita psichica. Ora, se questo paragone è sufficientemente esplicativo, l’archetipo rappresenta quel tratto unitario capace di cogliere la totalità delle manifestazioni, superando le apparenti divisioni di emozioni tra loro separate. Nella pratica, se esaminiamo l’archetipo dell’amore, la visione totalizzante non sarà più solo quella che esplorerà le varianti fisiche e psicologiche dell’amore umano (la banda centrale del visibile) ma oltre questi confini la visione archetipica sarà in grado di legare un discorso unitario le varianti istintuali dell’animale e del vegetale (aspetto infrarosso) con le più sottili e trascendenti “vibrazioni” mistiche e spirituali indotte nella psiche dall’atteggiamento d’amore (aspetto ultravioletto).
L’aspetto “sottile” dell’energia epatica
Per questo afferrare la visione completa di ciò che si definisce come archetipo è un compito sovraumano; per essere capaci di tanto bisogna infatti aver recuperato in sé una totalità così vasta e così generale da permettere alla coscienza esplorante di “vedere” come “insieme” ciò che alla coscienza ordinaria appare frammentato in mille rivoli di esperienze.
Più che l’aspetto archetipico, che è patrimonio della conoscenza assoluta pertinente alle grandi leggi della vita, l’uomo è in grado di recuperare in sé la visione simbolica, ovvero quell’aspetto dell’esperienza interiore che si pone oltre le apparenze frammentanti dell’io, perché come tratto psichico tendente alla totalità richiama più da vicino l’essenza dell’archetipo. Sulla base di quanto detto tentiamo ora uno studio su di un organo fondamentale del nostro corpo, il fegato, per evidenziare gli aspetti simbolici di esso, espressione di un attività più segreta di un archetipo generatore che dà forma a quest’organo.
Esploriamo prima l’aspetto sottile delle energie “epatiche”, ovvero il tratto più spirituale, e per far ciò ci serviamo di un noto mito, quella Prometeo, a cui viene divorato il fegato da un’aquila. Prometeo è personaggio antichissimo, anteriore a Zeus e agli dei olimpici e il suo nome letteralmente significa “colui che pensa prima” e che dunque è pre-veggente.
Il mito di Prometeo
Sarebbe stato Prometeo a creare l’Uomo, plasmandolo con argilla e Atena avrebbe conferito alla nuova creatura il soffio vitale. Non contento Prometeo avrebbe insegnato al genere umano l’arte del vivere civile. Già da queste prime note appare che Prometeo rimanda a un’antica capacità dell’essere umano, quella di essere stata in grado di sottrarsi ruolo indiscriminato degli impulsi primitivi dell’orda primordiale, capace solo di vivere l’istinto in tutte le sue manifestazioni di scarica, senza elaborazione della finalità degli stessi. Con l’affermazione della facoltà prometeica la coscienza umana cominciò a distinguere il bene dal male, l’utile dall’inutile, il vero dal falso, e nacque così la possibilità del vivere comune e del consesso civile.
Ma Prometeo poi, seguendo il mito, osò ingannare Zeus per favorire gli uomini e per punizione dell’affronto subito Zeus negò agli uomini la conoscenza del fuoco; ma Prometeo riuscì a rubare il fuoco all’Olimpo e ne fece dono agli uomini.
Sempre più adirato, Zeus ordinò a Efesto di incatenare Prometeo nel Caucaso, e incitandogli contro un’aquila comandò che questo uccello divorasse di giorno il fegato immortale, destinato di notte a crescergli di tanto quanto ne era stato roso.
Prometeo, nonostante il supplizio fosse grande, lo tollerava con animo indomito, ben sapendo che nel futuro un figlio di Zeus e di una mortale lo avrebbe liberato. Il che avvenne, ma dopo ben tredici generazioni, per opera del semidio Ercole. È evidente da questo mito come Prometeo stesse a rappresentare per la mentalità antica quella facoltà della coscienza umana capace di sottrarre al mondo uroborico degli istinti la conoscenza del “fuoco”, ovvero dell’elemento trasformatore per eccellenza, in grado di offrire al mondo la possibilità della propria evoluzione.
Perché l’aquila deve divorare il fegato?
Il supplizio a cui viene condannato da Zeus, simbolo del Sé cosmogonico, è quello di vedersi divorare il fegato da un’aquila durante il giorno e di vederselo ricostruire durante la notte. Il fegato rappresenta il coraggio necessario che deve diventare il “cibo” capace di alimentare “l’aquila”, ovvero la possibilità di vedere le cose con occhio lungimirante e cosciente, affinché la psiche consapevole possa dominare la vita istintuale.
Infatti, affinché la vita sociale possa organizzarsi in modo da permettere all’uomo la propria evoluzione, è necessario che il coraggio (fegato) di vincere l’istinto, venga sublimato (divorare) a favore di quell’aspetto lungimirante della coscienza (aquila) tale da poter vedere in modo distaccato il fluire dell’esistenza.
Spostiamoci ora sul versante “infrarosso” dell’esperienza simbolica, legata allo studio della funzione archetipica concretizzata nell’organo fegato. Nel vivente si può considerare come un vero e proprio laboratorio, capace di assicurare la vita. Le sue principali funzioni sono distinte nelle seguenti categorie: immagazzinamento di sostanze nutritizie e conversione delle proteine e grassi in zucchero (glicogeno); continua regolazione nel sangue di sostanze ormonali che sono indispensabili alla vita; neutralizzazione dei veleni esogeni introdotti dall’esterno, e di quelli endogeni, prodotti dall’organismo umano; produzione della bile; infine il suo stesso rinnovamento cellulare che avviene ogni sei mesi circa.
Come se non bastasse, le cellule di Kupfler (che appartengono al perfezionatissimo Sistema Reticolo Istiocitario), diffuse in tutto il fegato, producono di continuo anticorpi e fagocitano, estraendoli dal sangue, batteri, virus e corpi estranei.
Dal punto di vista biochimico, se pensiamo al cibo come a un “prodotto grezzo”, proveniente dal mondo esterno e destinato ad immettersi nel sangue, “materia” vitale per eccellenza, possiamo considerare il fegato come un vero e proprio “cervello primitivo”, capace di elaborare i dati esterni (proteine e grassi) in un aspetto unitario (glicogeno); di elaborare gli ormoni, ovvero le rappresentazioni interiori, affinché vengano usate dal corpo; di disintossicare i veleni, ovvero di “rimuovere” le istanze pericolose per la vita, di produrre la bile, ovvero la sostanza capace di digerire i grassi, proprio come nella psiche i meccanismi di difesa elaborano gli impulsi, ecc.
Le capacità trasformative epatiche
In altre parole il fegato, come organo biologico, rimanda a un’analoga funzione complessa nella psiche, in grado di trasformare gli impulsi primordiali in immagini capaci di essere assimilate dalla coscienza, sino alla sua amplificazione completa.
Ecco allora, alla luce degli aspetti “ultravioletti” e “infrarossi” succintamente esposti, delinearsi sempre meglio e sempre più la funzione dell’Archetipo incarnato nell’organo epatico come forma fisica e negli analoghi aspetti sottili intesi come funzioni psicologiche. Il fegato, seguendo le funzioni fisiologiche e il mito prometeico, rimanda a un organo reale e simbolico capace di trasformare la materia brutale e grezza del cibo da assimilare, e degli istinti da integrare, in materia “sottile” e “più evoluta”, chiamata sangue da un lato e libido psichica dall’altro. Per di più il fegato raccoglie tutto il sangue venoso dell’addome e lo trasforma in sangue più ricco di sostanze nutritive, destinate a entrare nella grande circolazione e di lì essere assimilate dalle cellule. Se ci rapportiamo a livello della vita psichica, il fegato simbolico è rappresentato da quella capacità organizzativa della mente tale per cui gli aspetti più istintuali della libido vengono elaborati in aspetti utili per l’amplificazione della coscienza. Pensiamo ad esempio a un istinto sessuale generalizzato che deve essere trasformato in istinto sessuale direzionato.
Lo stretto rapporto tra fegato e primavera
Pertanto il fegato, come funzione archetipica, è ciò che trasforma l’energia primordiale grossolana in un aspetto più sottile e raffinato; sul piano macrocosmico esso corrisponde alla capacità della terra di germogliare le proprie energie latenti e materializzate in una ricca fioritura di alberi e fiori come accade a primavera, tanto che nella medicina cinese, come organo, il fegato era associato alla primavera e al colore verde. Se dal piano simbolico delle analogie tra l’organo epatico e la vita psichica vogliamo spingerci sul piano anagogico dello Spirito, l’archetipo epatico è rintracciabile nel momento di trasformazione degli interessi più propriamente individuali in quelli collettivi, destinati ad amplificare la coscienza specifica di ogni individuo.
Potremmo pensare che la solidarietà, la carità, l’occuparci degli altri come aspetto amplificato della nostra identità personale, a favore di una nuova dimensione della coscienza egoica, traggano la loro possibilità di trasformazione degli aspetti più egoistici dell’animo umano in dimensioni più evolute delle vita spirituale, proprio dell’attività archetipica della funzione epatica, che così attivandosi determina la crescita della coscienza collettiva dell’individuo.