Psicoanalisi e Buddhismo Zen
Fromm - Suzuki - De Martino
a cura di Dr. Aurelio Sugliani*
Prima dello Zen, i fiumi erano fiumi e le montagne erano montagne.
Durante lo Zen, i fiumi non erano più fiumi e le montagne non erano montagne.
Dopo lo Zen, i fiumi tornano ad essere fiumi e le montagne tornano ad essere montagne
Maestro Zen
Nel 1957 l’Università Nazionale del Messico organizzò un convegno sul Buddhismo Zen e la psicoanalisi con la partecipazione di Daisetz Teitaro Suzuki, considerato uno dei massimi esponenti della dottrina Zen, di Erich Fromm, rappresentante di quella corrente psicologica definita “psicologia umanistica” e di Richard de Martino, esperto sinologo. La struttura del libro alterna sezioni in cui Suzuki espone i principi fondamentali dello Zen a quelle in cui Fromm esplora le implicazioni psicoanalitiche e tenta di trovare punti di contatto tra la psicoanalisi freudiana e la visione del mondo Zen. A questi si aggiunge un terzo contributo, quello di Richard De Martino, che arricchisce ulteriormente il dialogo con una prospettiva più ampia sulla condizione umana e lo Zen.
Il maestro Suzuki individua, fin dall’inizio della sua presentazione sullo Zen, la differenza abissale fra l’approccio orientale e quello occidentale nello studio dei fenomeni. Prende ad esempio come il poeta giapponese Basho osserva una “pianticella nascosta, quasi disprezzabile, fiorente presso la vecchia siepe […], senza alcun desiderio di essere notata da nessuno. E tuttavia quando la si guardi, quanto tenera, quanto piena di divina gloria o di splendore più glorioso di quello di Salomone essa appare!” “Il poeta - prosegue Suzuki – può leggere in ogni petalo il mistero della vita o dell’essere”.
Ben diverso è invece l’approccio occidentale impersonato dal poeta Tennyson che nella sua breve poesia scrive “Fiore che spunti dal muro screpolato, io ti colgo dalla fessura, ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano, piccolo fiore, ma se potrò capire ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto, saprò che cosa sono Dio e l’uomo”. Suzuki rimarca quanto Tennyson sia attivo ed analitico, coglie il fiore, lo strappa dal terreno, lo soppesa, ne guarda i dettagli, ma in sostanza fa morire la pianta.
Suzuki poi pone l’accento sul concetto di Io nello Zen, evidenziando come questa dottrina si muove sostanzialmente in direzione contraria a quella perseguita dalla scienza. Quest’ultima, sostiene Suzuki, è sostanzialmente centrifuga, estroversa, ricerca l’obbiettività, oggettivizza, analizza e quindi nei riguardi dell'istanza psichica definita come Io “gli scienziati non possono presumere di arrivare all’Io, per intensamente che lo desiderino, senza alcun dubbio possono tenere grandi discorsi intorno ad esso, ma è tutto ciò che possono fare”. Nello Zen invece, l’Io deve essere colto dall’interno. La comprensione e la consapevolezza di questa istanza psicologica è possibile soltanto quando scompare la divisione fra soggetto e oggetto “spiccando un miracoloso salto in un regno di soggettività assoluta”. La descrizione che fa Suzuki dell’Io è quella di un cerchio privo di circonferenza, ma in cui l’Io stesso è il centro che si trova in ogni punto e in ogni luogo del cerchio “Il punto è cerchio e il cerchio è il punto” sottolinea Suzuki.
La ricerca dell’Io, essendo inafferrabile, elusivo e non localizzabile, non può essere oggetto di indagine scientifica. Una modalità Zen per “decostruire” la modalità lineare del pensiero dell’Io razionale è quella dell’utilizzo dei Koan. Per Koan si intende un problema di natura paradossale che il maestro sottopone all’allievo. Suzuki evidenzia che il koan è già presente in noi, e il maestro si limita a fare in modo che l’allievo possa vederlo. “Si dice che esso sia da noi compreso, quando venga portato dall’inconscio al campo della coscienza”. Per arrivare a ciò il koan assume una forma dialettica, ma apparentemente destituita da ogni senso. Suzuki ne fa un esempio dove il maestro, con in mano un bastone, pone il seguente koan agli allievi “Questo non è un bastone, che nome, allora, gli dareste voi”? Data la natura paradossale del problema[1], la mente degli allievi deve in qualche modo cortocircuitare per trovare una risposta adeguata. Ad esempio, l’allievo potrebbe prendere il bastone e romperlo in due pezzi. Il maestro Zen rimarca ancora che non è con l’intelletto che è possibile trovare una risposta ai quesiti della vita, ma è il senso del volere, scrive infatti “Se ciò si sente, le porte della percezione si spalancano e si presenta una nuova prospettiva”.
In questo modo afferma Suzuki si può sperimentare il Satori, l’esperienza illuminante dello Zen, come un processo di risveglio in cui l’individuo trascende l’illusione dell’Io separato, accedendo a uno stato di coscienza più profondo e non dualistico. Questa stato “illuminato” della coscienza consente anche di liberarsi dalla sofferenza (l’attaccamento) intuendo che l'Io e il mondo fenomenico sono impermanenti e illusori.
Nel capitolo “Psicoanalisi e Buddhismo Zen” invece lo psicoanalista Fromm tenta di trovare possibili connessioni fra il pensiero freudiano e la mistica Zen. Fromm premette che l’uomo occidentale non è affatto consapevole della propria crisi. Scrive Fromm “Si tratta di quella crisi che è stata definita come maladie, ennui, mal du siècle, devitalizzazione, automatizzazione dell’uomo, sua alienazione rispetto a se stesso, ai simili e alla natura”. Fa un certo effetto leggere queste parole scritte nel 1957, ma decisamente attuali! Nella sua esposizione Fromm declina quello spirito umanistico che pervade il suo pensiero. Nell’elaborazione delle tesi freudiane, questo autore sposta il focus della terapia psicoanalitica dalla risoluzione delle nevrosi al tema della ricerca del benessere. Sottolinea come nella psicoanalisi freudiana, così come nello Zen, il pensiero cosciente (l’Io) sia decisamente relativo ed irrilevante “a paragone del tremendo potere di quelle sorgenti interne, che sono oscure e irrazionali e nel contempo inconsce”. Per benessere, From intende “essere in armonia con la natura dell’uomo” in quanto l’esistenza umana pone il quesito del senso del dolore, della frammentazione emotiva, della divisione dai nostri simili e dalla natura. L’uomo, afferma Fromm, ha il dovere, in qualche modo, di rispondere. Il quesito è il medesimo afferma l’autore, ma le risposte sono fondamentalmente due. La prima è una regressione ad uno stato unitario prima che insorgesse la consapevolezza, l’altra consiste “nell’essere completamente nati” […] fino al punto di trascendere il groviglio del proprio egocentrismo, pervenendo così ad una nuova armonia, ad una nuova comunione con il mondo”. Nascere è un processo, “vivere vuol dire nascere in ogni istante” e il fine della vita è quello di nascere completamente. Secondo Fromm alcuni nascono già morti (psicologicamente), bramosi di regredire al buio, all’utero, alla terra, alla morte; altri pur procedendo sulla via della vita, restano imbrigliati, dipendenti dai genitori, dalla razza, dallo status sociale, dal denaro, ecc., e quindi “mai divengono completamente nati”.
Benessere, prosegue Fromm, significa conseguire la pienezza della ragione, non nel senso intellettuale, ma in quello di cogliere la “verità”. Benessere è superare il proprio narcisismo ed essere aperti, sensibili, lucidi e vuoti (in senso Zen). Benessere significa anche essere pienamente empatici con gli altri e alla natura e nello stesso tempo sperimentare se stessi come entità separata che si è come in-dividui. Benessere, in altre parole, significa essere completamente nati!
Le riflessioni di Fromm proseguono nell’esplicare la “natura sociale” dei contenuti sia consci che inconsci che sono determinati da filtri quali il linguaggio che denota, dalla logica aristotelica dove vige il principio di identità, la non-contraddizione e il principio del terzo escluso e infine dai contenuti delle esperienze determinate dai contesti sociali. Scrive infatti Fromm: “Arriviamo allora a considerare che la coscienza e la non-coscienza sono socialmente condizionate. Io sono consapevole di tutti quei miei sentimenti e pensieri, ai quali è consentito di passare attraverso il triplice filtro del linguaggio (socialmente condizionato), della logica, e dei tabù (costituenti il carattere sociale).”
Infine Fromm fa una disamina delle possibili connessioni fra lo Zen e la psicoanalisi. Così come lo Zen nei suoi scopi intenda vincere le bramosie di gloria, di denaro e dell’avidità in genere, così pure la psicoanalisi, nel suo processo di rendere conscio l’inconscio, cerca di disporre lo sviluppo della coscienza, da un orientamento crudele e meschino ad uno autonomo e attivo ed autentico. Altro elemento comune fra le due modalità di esperienza del mondo sono “costituite dalla loro insistenza sull’autonomia di qualsiasi genere di autorità”. Il ruolo di maestro e del terapeuta è qui inteso come la levatrice o la guida di montagna a cui aspetta il compito di portare l’allievo (e il paziente) al conseguimento della propria realizzazione.
Altra affinità fra Zen e psicoanalisi nella figura del maestro e del terapeuta è che entrambe dovrebbero “mettere alle corde” il discepolo (attraverso i koan) e il paziente sottraendogli le varie finzioni, razionalizzazioni, difese, fino a che diventi conscio di qualcosa di cui non era conscio in precedenza. In questo modo l’allievo può sperimentare quello stato estatico di illuminazione definito dallo Zen come satori, mentre nel paziente avviene il “trionfo sulla rimozione, la trasformazione dell’inconscio in coscienza”. Quest’ultimo non si deve intendere, come nella concezione freudiana, del dissolvimento di nuclei nevrotici, ma nell’estendere la consapevolezza all’”esperienza totale dell’uomo totale”.
L’autore, pur rimarcando le differenze fra i due approcci, evidenzia come “la conoscenza dello Zen, e un interesse per esso, possono avere sulla teoria e sulla tecnica psicoanalitica un’influenza assai feconda e chiarificatrice. Lo Zen, pur diverso com’è, nel suo metodo, dalla psicoanalisi, può meglio mettere a fuoco la natura dell’intuizione, può gettare nuova luce su di essa, aumentare il senso di ciò che in quella si deve vedere, di come possa essere creativa, di come debba essere per superare le contaminazioni affettive e le false intellettualizzazioni, che inevitabilmente risultano dall’esperienza fondata sulla frattura soggetto-oggetto”.
Il testo "Psicoanalisi e Buddismo Zen" è quindi un'opera che stimola una riflessione profonda sul senso dell’esistenza, sull’essenza della mente umana e sulle vie per raggiungere una maggiore consapevolezza e libertà interiore. La forza del libro risiede nel dialogo aperto tra due grandi pensatori che, pur partendo da premesse molto diverse, trovano una sorprendente convergenza su questioni fondamentali come la natura dell’Io, la sofferenza e l’amore. Per chi ha un interesse per la psicoanalisi, al Buddismo Zen o semplicemente alla filosofia della mente, questo libro offre una ricchezza di spunti e di intuizioni, fornendo strumenti utili per una comprensione più integrata e olistica della condizione umana.
[1] Si tenga presente che in ambito terapeutico, soprattutto nell’orientamento sistemico, si usa la “prescrizione paradossale” (una sorta di koan), in cui si prescrive il sintomo come modalità terapeutica proprio per disarticolarne la struttura e trovare così una risoluzione.
Fromm, Suzuki, De Martino, Psicoanalisi e Buddhismo Zen, Astrolabio, Roma, 1968
*Dr. Aurelio Sugliani - Laureato in psicologia. Responsabile Gestione Sistemi informatici e Area web ANEB. Collaboratore di Materia Prima. Autore dei libri “Tex Willer. Tra mito e archetipo”, “Nekyia: sentieri di conoscenza”, “Voci, racconti e narrazioni del corpo”, "Le relazioni nel mondo digitale".